Carità culturale e cantico d’amore

La cultura della carità è sempre stata a servizio della Verità. Giovanni Battista Montini, nel 1930, periodo in cui era funzionario della Segretaria di Stato e assistente nazionale della Fuci, a un suo articolo sulla rivista studentesca «Azione fucina», mise come titolo: Carità intellettuale. In questo scritto affermava: «Anche la scienza può essere carità. Chiunque con l’attività del pensiero e della penna diffonde la verità rende un servizio alla carità». In effetti, l’arte della bellezza culturale, sotto il segno della carità, è sempre a servizio della verità. Montini, infatti, nei suoi scritti, usando un’espressione di sapore agostiniano, soleva definirla, appunto, “carità intellettuale”. Il giovane presbitero bresciano era convinto che ogni attività intellettuale «che si profonde nell’intenzione benefica per gli altri, oltre che arricchirsi di nuove esperienze, della più utile esperienza umana», si trasforma in quella “carità intellettuale” che abilita alla testimonianza e all’annunzio della Verità.

In questi tempi di amara secolarizzazione tramite ogni forma data dai mezzi di comunicazione, è necessario il grido della verità nella carità usando linguaggi antichi e moderni, ma pur sempre con i toni della nobiltà culturale. L’epoca contemporanea, con le sue culture segnate dalla difficoltà del credere, dalla desolante indifferenza e dalla presuntuosa ignoranza, naviga nella scristianizzazione e talvolta in quell’anticlericalismo generato dal rigetto delle realtà sacre avvilite dalla mancata serietà cultuale e culturale, soprattutto quando, nelle celebrazioni liturgiche, le sante realtà sacramentali sono celebrate o con superficialità banale incomprensibile o con volgarità diseducante o con teatralità concertistica fuorviante. Questi pericolosi veicoli di comunicazione sono incapaci di rivelare il Mistero posto nelle nostre mani e celebrato dalla Chiesa di Cristo nella divina Liturgia.

La verità rivelata nella carità intellettuale è per sua natura sublime canto d’amore: “Cantare amantis est” afferma sant’Agostino nel suo Sermo 336,1. La celebre frase agostiniana contiene in sé due grandi parole: Armonia e Concordia. Esse sono il nome e il volto della sublime bellezza di Dio e della sua assoluta perfezione. La parola armonia indica altissima unità tra discordanza e concordanza. Esiste, infatti, perfetta armonia quando entità diverse convivono. La seconda parola, concordia, esprime conformità di sentimenti, voleri e opinioni tra due persone, non disgiunta da reciproco affetto in armonia spirituale.

L’arte musicale comporta, allo stesso tempo, concordanza e dissonanza, cioè fusione di due o più suoni in unità armonica e “trasgressione” di quest’armonia con aggiunte di note estranee. Come la diastole e la sistole convivono insieme per creare l’armonia sinfonica dell’organismo, così concordanza e dissonanza sono armonia sinfonica per creare musica bella e buona. Esse sono soprattutto, punto di arrivo e conquista di uomini saggi, sapienti e intelligenti. Senza armonia e senza concordia regna confusione e disorientamento, divisione e disordine.

Dal felice connubio tra unisono e polifonia, tra concordanza e discordanza è fiorita una delle più affascinanti avventure tra spirito e corpo, tra silenzio e suono, tra eternità e tempo: la sublime bellezza della vera arte musicale. Essa non ha lo scopo di mostrare soltanto le belle forme sonore, ma, attraverso di esse, di far percepire la bellezza attraverso l’incanto estetico. La musica è metamorfosi viva della relazione col mistero del bello per essere capaci di saperlo percepire nel gusto dello stupore vivificante e trasfigurante.

I luoghi della creazione del bello sono l’animo e la ragione filtrata dal cuore dell’artista. La sua vocazione è quella d’introdurre la Bellezza nella vita d’ogni giorno: nel cuore, negli occhi, nella mente dell’uomo, realizzando così l’antico sogno platonico di identificare il bello col vero, il bello e il vero con il giusto, il bello, il vero e il giusto con il bene, con il sommo Bene: Verità, Bellezza e Bontà convivono in sinfonica simbiosi! L’arte vera rafforza il sentimento religioso, perfeziona la condizione morale, raffina lo stile di vita sociale.

Tra continuità e innovazione, il vero artista, attraverso la tecnica del concordare l’antico in armonia col nuovo, porta frutti autentici di novità attraverso quella pluralità che genera unità. La patologia della superficiale facilità – che non è la nobile semplicità – oltre a degradare l’arte stessa, nuoce alla morale e alla dignità umana.

Questi principi dovrebbero sempre guidare la Chiesa nell’itinerario liturgico-musicale catechetico e mistagogico per celebrare il Mistero e farlo rivivere, tra fascino e dramma, sul cammino della splendida via pulchritudinis. La via della Bellezza è il sublime stile con cui Dio Creatore, al canto dei suoi Fiat, crea, con le sue dita divine d’Artista, il cosmo e l’umanità. Il vero artista, creato a immagine e somiglianza del divino Artista, operando arte incontra Dio che, a sua volta, educa l’uomo alla creazione, alla visione e all’ascolto del Bello. Nel fare arte per la liturgia, la concordia non è pura tecnica ma armoniosa ascesi verso il divino. Questa comunione estetica ricolma l’uomo di una gioia rara perché l’esperienza personale di fare arte diventa anche comunione interpersonale. Cantare amantis est! Il canto della carità culturale sia stimolo per costruire la verità di una fraterna umanità stabile e feconda, armoniosa, pacifica e serena.

Giuseppe Liberto

Il cuore e il volto

Non si tratta tanto di dare un giudizio filosofico o estetico stilistico esteriore, ma di esprimere un’opinione circa un comportamento che talvolta fa trasparire una stima esagerata dell’“esterno” e crisi depauperante dell’“interno”. In effetti, per chi possiede una vera personalità, non esiste “fuori” o “dentro”, perché il valore di una persona non si misura da riferimenti spaziali. E’ l’entità spirituale dell’uomo che si rivela nella sua corporeità. Quando spirito e corpo si armonizzano, la visibilità diventa trasparenza dell’interiorità. Oggi, purtroppo, si nota una sorta di prevalenza dell’apparire più che dell’essere. La stima esagerata per l’eccesso di “visibilità” porta alla vanità e perfino alla menzogna dei rapporti umani sino al fariseismo più menzognero e ripugnante. Quello che preoccupa è, dunque, che questo modo di “autoporsi” diventi stile di vita che provoca mancanza di fiducia negli altri con conseguente non credibilità.

Lo stile dell’apparire è ormai di moda. “Moda”, come affermò Pio XII, ha lo stesso etimo filologico di “modestia”. Oggi, purtroppo, la modestia non è più di moda. Se non appari e non fai spettacolo di te stesso e delle tue cose, non conti nulla, non vali niente. Il guaio è che la teatralità di se stessi, per essere popolarmente accolta con urla, scimmiottature, consensi e applausi, degenera nella sottocultura della volgarità. Si sa che i capricci della moda portano a ostentare quella specie di esuberanza popolare e talvolta popolana in modo da essere irresistibili in ogni circostanza. Se la moda pubblicitaria, in certe sue creazioni, diviene ridicola, è d’obbligo manifestarla “seriamente” dimenticando i valori essenziali dello spirito e le verità eterne dell’essere.

L’esperienza ci istruisce che quando la persona si dà alle vanità, inesorabilmente vive dei surrogati dell’apparenza. Nascono da qui, l’agitazione, la stanchezza, il malumore, la falsità, la violenza e ogni sorta d’inquietudine. Le leggi dello spirito non sono la somma di cose sensibili moltiplicate all’infinito, la quantità, infatti, non da mai la qualità. Siamo sempre più convinti, che la dialettica dell’apparire sia in profonda antitesi con quella dell’essere. Anche se per alcuni l’essere è una parola che non significa niente, tuttavia non si riduce all’apparire che appare e poi scompare. Chi cerca soltanto l’apparire senza l’essere, piomba inesorabilmente nel ridicolo. Per non rimanere vittime dell’ipocrisia e della menzogna, è necessario avere vivo il senso e il valore effettivo e insostituibile dell’essere per testimoniarlo con lo stile di vita.

L’individuo, quando riceve o compra un titolo, un ruolo, un incarico, talvolta, cambia volto, interpone distanze, smorza o spegne i rapporti di amicizia o di cordialità che c’erano prima, si erge sul piedistallo del valore labile dell’apparire mortificando quello effettivo dell’essere. L’”apparire”, però, con i casi della vita e con l’andare del tempo, può cambiare e invecchiare, generando inconsistenza e tristezza, mentre l’”essere” è sempre fonte di serena stabilità e motivo di feconda gioia, nonostante tutto.

Si è soliti dire: “Se tu non appari, non conti”. Nella vita, il mito dell’apparire senza la verità dell’essere è insipienza e sconsacrazione. La Santità è epifania di sapienza e di consacrazione, è grembo della Verità accolta e vissuta nella Carità. La persona che vive nella verità di se stessa, è accolta non come maschera ma come volto, non come trucco ma come luce degli occhi che è trasparenza d’amore nel cuore. Il Santo si rivela sempre dal come vive l’esperienza della libertà di coscienza che, animata dalla carità, spinge al servizio di fraterna concordia con i suoi simili. Il santo è un figlio di Dio che, fedele alla chiamata, ora vive nella casa del Padre. Ogni uomo, avvolto da quest’immenso amore divino, vive il sublime mistero della figliolanza con Dio, nella speranza che un giorno la somiglianza con Dio apparirà quando la fede diventerà visione.

Agli occhi di chi sa guardare tutto è un segno, alle orecchie di chi sa ascoltare tutto parla. L’uomo cieco e sordo è privo di vita interiore, è solo contro tutti, rimane inerte e ottuso difronte ad altri segni e ad altre voci. Avere sempre bisogno di approvazioni e di elogi, d’incoraggiamenti e di adulazioni è una grande miseria interiore.

Cuore e mente, ascolto e visione hanno bisogno di un grande discernimento, di buoni consigli da parte di veri maestri, di volontà salda e di correzione fraterna. L’uomo talvolta si mette in condizione di non sapere quel che deve fare e così dimentica che il suo “unico mestiere” è quello innanzitutto di essere persona umana con un volto che è specchio del cuore e dell’anima.

Nella Santa Scrittura osserviamo che il vero profeta, anche se in cuor suo sente di essere privo di ogni qualità, nel candore del suo volto percepisce di possedere la perfetta lucidità di coscienza, la fede di un cuore che crede e una buona dose d’amore: ed egli è già persona umana! Per tutto questo il Signore ne fa un profeta mostrandogli la sua volontà attraverso segni che noi talvolta ignoriamo. Il cuore del profeta ha sempre il volto dell’amore. Il lavoro, la lotta, la fatica, la solitudine sono le forme esteriori della sua fede, del suo amore e della sua adorazione. L’umana debolezza dei profeti deve aiutarci a sopportare e a superare le nostre quotidiane debolezze. La loro ripresa ci deve insegnare a percepire col volto del cuore le fonti delle divine energie per vivere d’Amore.

Giuseppe Liberto

Maria assunta in cielo

Come mai un avvenimento così importante è custodito dalla Chiesa antica nel mistero del silenzio? Il primo autore che ha rotto questo silenzio è Epifanio, vescovo di Costanza (Cipro), vissuto nella seconda metà del IV secolo. Il vescovo, costatando che nelle divine Scritture non si accenna alla morte della Madre di Gesù, scrive: “Certo è che quando l’apostolo Giovanni si recò in Asia, da nessuna parte si dice che egli avrebbe preso con sé la Vergine Santa. La Scrittura a questo proposito ha mantenuto il silenzio più completo a causa della grandezza del prodigio; per non suscitare uno stupore eccessivo nell’animo degli uomini. Personalmente non oso parlarne. Preferisco impormi un atteggiamento di riflessione e di silenzio” (Panarion 78,11).

Basilio Magno, nel suo trattato sullo Spirito Santo, scrive una riflessione illuminante e afferma che nelle verità di fede occorre distinguere i “cherigmi” dai “dogmi”. I primi sono verità contenute nella santa Scrittura e devono essere proclamati per la diffusione del Vangelo. I “dogmi” non sono contenuti nella Scrittura ma sono stati trasmessi dagli apostoli nel “mistero”. Il termine “mistero” definiva anche la celebrazione liturgica o sacramentale, per cui talune verità erano insegnate durante la celebrazione della liturgia. Basilio, precisando che i dogmi e i cherigmi in rapporto alla fede hanno la stessa forza e la stessa importanza, afferma con decisione: “Se, infatti, rigettassimo le verità non scritte come non importanti, agiremmo contro il vangelo…I nostri padri non avevano forse imparato a coltivare nel silenzio il rispetto per i misteri?” (De Spiritu Sancto 27).

Lex orandi lex credendi. Il popolo cristiano orante ha sempre creduto che Dio, con la Vergine Madre, si sarebbe comportato in modo diverso da come ha fatto con tutte le altre creature. Maria, pur essendo creatura umana, ebbe il privilegio di essere Immacolata Concezione e dalla “dormizione” sarebbe poi passata al pieno compimento della gloria in paradiso. Il popolo cristiano, professando il Credo, ha intuito che nelle parole semper virgo era rivelato il mistero dell’Assunzione in cielo di Maria in corpo e anima.

Al di là delle profonde argomentazioni e dei complicati sillogismi, lo Spirito Santo illumina la mente con maggiore splendore della fioca luce affaticata dell’intelligenza umana. I primi cristiani erano convinti che Colei che era stata abitata dallo Spirito sin dalla sua concezione non poteva conoscere la corruzione della sua dimora all’interno di un sepolcro di morte. Teodosio d’Alessandria (566) attribuisce a Gesù, venuto da sua madre nell’ora della morte, queste parole: “Alzati dal tuo letto, o corpo santo, che fu per me un tempio!”. Giovanni XXII afferma che “la Santa Madre Chiesa fervidamente crede e suppone con evidenza che la beata Vergine fu assunta in anima e corpo” (Cum nobis, 17 maggio 1324). Sarà Pio XII, il 30 novembre del 1950, a proclamare solennemente il dogma.

La solennità dell’Assunta non può essere solo ricordo di un mistero che attrae e stupisce, è anche memoria di un trionfo anticipato che infonde speranza di vittoria sulla morte e sicurezza che anche noi, uniti a Cristo, come sua Madre, sublime modello del nostro destino, saremo assunti in cielo. Dio, infatti, ha abitato in Lei per abitare anche in noi.

Il Prefazio dell’Assunta, seguendo l’antica tradizione cristiana, così canta: “Oggi la Vergine Maria, madre di Cristo, tuo Figlio e nostro Signore, è stata assunta nella gloria del cielo. In lei, primizia e immagine della Chiesa, hai rivelato il compimento del mistero di salvezza e hai fatto risplendere per il tuo popolo, pellegrino sulla terra, un segno di consolazione e di sicura speranza. Tu, non hai voluto che conoscesse la corruzione del sepolcro colei che ha generato il Signore della vita”.

La solennità dell’Assunzione di Maria ci ricorda che tutti siamo cittadini del cielo e che, “quando sarà distrutta la nostra dimora terrena, che è come una tenda, riceveremo da Dio un’abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli” (2Cor 5,1).

Oggi, in mezzo alle nostre agitate giornate ricolme di occupazioni e preoccupazioni, possiamo contemplare il nostro ultimo e definitivo destino della vita: la gloria eterna con la Santissima Trinità, con Maria e con tutti gli angeli e santi.

Oggi, l’Assunta in corpo e anima alla gloria dei cieli ci rivela il valore autentico del corpo umano. L’uomo non è pietra, non è pianta, non è animale, non è mummia inerte che rimarrà imbalsamato per tutta l’eternità, ma la speranza ci assicura che i nostri corpi di morte saranno vivificati dallo Spirito di Cristo che abita in noi (cf Rm 8,11) poiché siamo templi dello Spirito Santo che abita in noi.

Oggi, l’Assunzione di Maria ci fa intravedere la visione della speranza realizzata nella gioia della beatitudine eterna. Maria, spezzando i vincoli dello spazio e del tempo, ci apre il paradiso della gioia e ci lancia verso la libertà e l’eternità sperata.

Oggi, Maria ci invita a ordinare la vita in una gerarchia di valori e a viverla secondo il monito di san Paolo: “cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio” (Col 3,2).

Il concilio Vaticano II, nella costituzione Lumen Gentium, così scrive: “Assunta in cielo, Lei non ha interrotto questa sua funzione salvifica, ma con la sua molteplice intercessione continua a ottenerci i doni che ci assicurano la nostra salvezza eterna” (n. 62).

San Germano, patriarca di Costantinopoli, quasi indeciso tra lodare la vita di Maria o esultare nella festa che la celebra, così s’interroga: “Intonerò lodi alla tua convivenza con i mortali, o celebrerò la gloria della tua Dormizione per passare alla vita immortale, il giorno della tua Assunzione, secondo lo Spirito?” (IV Omelia mistagogica).

San Paolo, parlando della nostra risurrezione, illumina i cristiani di Corinto con queste parole: “Fratelli, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. Perché, se per mezzo di un uomo, venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita. Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo. Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza. È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte” (1Cor 15,20-26).

Con frasi elevate e toccanti, il concilio Vaticano II così esprime il mistero dell’Assunzione di Maria: “Finito il corso della sua vita terrena, fu assunta alla celeste gloria in anima e corpo e dal Signore esaltata quale regina dell’universo per essere così più pienamente conforme al figlio suo, Signore dei signori e vincitore del peccato e della morte” (LG 59). Poi continua: “La Madre di Gesù, come in cielo, in cui è già glorificata nel corpo e nell’anima, costituisce l’immagine e l’inizio della Chiesa, che dovrà avere il suo compimento nell’età futura, così sulla terra brilla ora innanzi al peregrinante popolo di Dio quale segno di sicura speranza e di consolazione, fino a quando non verrà il giorno del Signore” (LG 68).

La Vergine Madre di Gesù, al termine della sua vita mortale, non poteva, dunque, essere consegnata alla dissoluzione della morte, ultima nemica: questo è il destino di noi peccatori, non il suo! Maria anticipa e assicura il traguardo della nostra speranza. Noi non saremo mai Chiesa se non apparteniamo a Cristo con tutto il nostro essere e agire, lasciandoci coinvolgere con Maria e come Maria nella preghiera che magnifica il Signore per la misericordia che ci ha donato e per le grandi cose che ha compiuto in noi. Il viaggio della risurrezione e dell’assunzione ha bisogno della speranza alimentata dalla pazienza, da non confondere con la disperanza dell’ignavia o con la pigrizia spirituale. La vita cristiana è vivere l’attesa che Cristo ritorni, perché solo il suo ritorno ci salverà.

Giuseppe Liberto

Trasfigurazione sul Tabor

Il profondo significato della Trasfigurazione si può capire soltanto nel contesto in cui gli evangelisti la raccontano. Il brano inizia con un riferimento di tempo, sei giorni dopo (v. 1) che non è solo elemento cronologico ma anche teologico. Il primo collega l’evento trasfigurativo con l’episodio che lo precede: la professione di fede messianica di Pietro, il primo annunzio della passione e le condizioni per essere veri discepoli. Il secondo richiama due eventi dell’Antico Testamento: Esodo 24,16a che narra della “gloria” di Dio che coprì il Sinai per sei giorni; e Genesi 1, 27.31 quando al sesto giorno fu creato l’uomo. Matteo, unendo i due richiami, annunzia che in Gesù si realizza il disegno creatore di Dio che, attraverso l’esperienza trasfigurativa, rivela come la vita superi la morte. I discepoli, però, non comprendono come la vita possa nascere dalla morte e la gloria essere nascosta nella croce. Nella visione di quella trasfigurata bellezza in splendore di Luce, Dio concede ai discepoli di intravedere ciò che il viaggio di Gesù verso la croce nasconde: nella croce-passione è innestata la gloria-risurrezione di Gesù e dei discepoli.

Matteo, dunque, inizia così il suo racconto: “Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte” (Mt 17,1). L’alto monte, il Tabor secondo l’opinione tradizionale, è il luogo teologico dell’incontro e dell’ascolto con Dio. Qui Gesù “fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce” (v. 2). Sole e splendore sono i simboli della divinità; il bianco abbagliante e la luce riflettono la gloria divina.

La Trasfigurazione ricorda Es 34, 29ss. Il giudaismo, infatti, attendeva, per il tempo finale, la trasformazione dei giusti in splendore ultraterreno e in bellezza raggiante. Paolo già percepiva, in questa intensità di luce, la vita attuale del credente in Cristo (cf Rm 12,2; 2Cor 3,18). Sul Tabor già risplende, nella Persona dello Sposo, quella luce che brilla nel Corpo ecclesiale della Sposa. L’evento taborico è realtà misteriosa che immerge lo sguardo nel regno dei Beati, è simbolo e anticipo, prefigurazione e pregustazione di quella beata condizione in cui lo splendore del volto di Cristo sarà anche quello dei beati. San Paolo, nella lettera ai cristiani di Filippi, afferma che il Signore Gesù “trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo Corpo glorioso” (Fil 3,21).

Accanto a Gesù trasfigurato, ci sono Mosè ed Elia. Essi avevano percepito l’avvento della Gloria divina impaziente di salvare l’uomo, ora possono lasciare la grotta del Sinai senza velarsi il volto e contemplare quel Corpo trasfigurato indicandolo come Colui al quale intendevano riferirsi nelle loro profezie.

Nella Trasfigurazione spiccano due momenti: la reazione di Pietro e la misteriosa voce del Padre. Pietro, contaminato dalla cristologia trionfalistica, affascinato dall’evento straordinario, trascura la cristologia del Figlio dell’uomo che “deve soffrire molto, essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, essere messo a morte e risorgere il terzo giorno” (Lc 9,22). Proprio lui, che aveva appena professato la sua fede in Gesù e che subito dopo si era opposto al suo annunzio, ora è incantato e, restando sul monte, desidera rendere eterna l’esperienza di quella visione paradisiaca. È desiderio umano e spontaneo che manifesta incomprensione sul significato di quell’evento, che non è inizio del definitivo ma anticipo profetico e fugace di esso. La vocazione del discepolo, infatti, è quella di percorrere la strada del provvisorio e della croce.

Battesimo e Trasfigurazione hanno la stessa voce, quella del Padre che nel Battesimo dice: “Tu sei il mio Figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto” (Lc 3,22) e nella Trasfigurazione, confermando la predilezione verso il Figlio, afferma: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo!” (Mt 17, 5a). Gesù è il Profeta definitivo, l’atteggiamento del discepolo, perciò, non può essere di “indagare”, ma quello di “ascoltare”. Il battezzato rinuncia a essere misura della verità e si fa servo della Verità. Solo così la storia della salvezza non sarà soltanto visione beatifica della storia dell’amore divino, ma esperienza sublime della libertà dell’uomo trasfigurato che ascolta e racconta l’amore di Dio incarnato nel cuore e vissuto nella vita.

Cristo trasfigurato irradia lo splendore della gloria del Padre. Questa epifania di bellezza divina suscita stupore e gioia nei tre discepoli. Lo sguardo della Bellezza e la percezione della Voce sono, per propria natura, sguardo ammirato e contemplante d’Amore.

L’antifona ai primi Vespri della Trasfigurazione così canta: “Cristo Gesù, visibilità della Bellezza di Dio, ha fatto trasparire lo splendore della divinità nell’esperienza sensibile dell’umanità”. Papa Leone Magno commenta affermando che la Trasfigurazione è l’evento “sacramentale” che maggiormente ci evidenzia la consistenza di una tale affermazione. La grazia epifanica e la contemplazione estetica della bellezza divina che la Trasfigurazione solennizza, sono opera estetica di riferimento teandrico cui rifarsi con sapienza verso la maturazione della spiritualità cristiana.

Pietro, attratto dallo splendore del Trasfigurato, esclama: “Signore, è bello (kalòn) che noi siamo qui” (Mc 9,5; Mt 17,4; Lc 9,33). Nel racconto della creazione troviamo lo stesso aggettivo che specifica la percezione della realtà che si sta gustando. Cristo trasfigurato si manifesta in forma divina e il divino si rivela attraverso la bellezza dell’umano. La fede allora è esperienza estetica della gloria-bellezza di Dio che si dona all’uomo. Fede e bellezza sono dono di Dio all’uomo. Ed è meraviglioso notare come il Logos creatore, incarnandosi, passò tra gli uomini realizzando amore e operando il bene, cioè il “Buono”. E quest’amore, vissuto sino in fondo, ci ha manifestato la Gloria attraverso il “Bello”. Nella Trasfigurazione l’esperienza estetica si trasforma così, in visione estatica. Il Tremendum si fa percepire attraverso il Fascinosum.

Nella scuola per i pittori sul Monte Athos, gli allievi, dopo avere eseguito le varie istruzioni liturgiche, teologiche e tecniche, alla fine dovevano passare un esame conclusivo dipingendo l’icona della Trasfigurazione. L’allievo doveva mostrare così la sua capacità di saper presentare, con l’arte della luce, il mistero nella visione di splendore anticipata dell’“ottavo giorno” dopo la gloriosa risurrezione dai morti, allo stesso modo con cui lo avevano visto i tre apostoli sul Tabor.

Il mistero della Trasfigurazione, dunque, anticipa la gloria della Risurrezione come traguardo della passione e morte di Gesù; non nasconde il cammino di croce con le sue sofferenze, non arresta il cammino di Gesù verso il Golgota, anzi, ci istruisce ad evitare ogni forma di trionfalismo e di leggerezza nel maturare la nostra fede e in più, ci stimola a percorrere la via della croce, non con rassegnazione ma con la fede che è capacità di affidarsi a Colui che è morto e risorto.

L’esperienza della visione-ascolto trasfigurante, che conduce a poter essere assimilati all’oggetto contemplato, esige la capacità di percepire nello stupore la gloria di Dio e di gustare assaporando la libertà ricevuta. Da parte dei credenti, al dono della gloria-bellezza, deve corrispondere l’impegno di comportarsi come figli della luce, rivestiti di Cristo, Luce del mondo (cf 1Ts 5,4-5; Rm 13,12-14; Ef 5,8). La trasformazione in splendore luce è trasfigurazione in bellezza teandrica: il Verbo, immagine-splendore del Padre, si è fatto uno di noi; lo Spirito, immagine-splendore del Verbo, è dato a ciascuno di noi; l’uomo, immagine-somiglianza di Dio, è divinizzato dal Verbo fatto Carne nello Spirito che è Dono.

La visione-ascolto della Trasfigurazione ci libera dalla paura della Croce e dall’indifferenza della Risurrezione. Quel volto trasfigurato dall’amore, nella passione sarà lo stesso volto sfigurato per amore.  Quanti sapranno vedere e ascoltare, accogliere e vivere il Logos, splendore del Padre, saranno trasformati in luce “di gloria in gloria secondo l’azione dello Spirito”. Immersi nelle acque battesimali ed emersi dalle acque a vita nuova, i battezzati, trasfigurati in Cristo, saranno capaci di trasfigurare il mondo in Cristo. Lo splendore dell’alba si raggiunge seguendo l’oscuro sentiero della notte: il tramonto è sempre luce che insegue l’aurora.

Giuseppe Liberto

Bellezza e nichilismo

La bellezza nasce, fiorisce e fruttifica nell’alveo più recondito e fecondo dell’essere umano. Nell’uomo nulla è più libero e inafferrabile del bello: chi può limitarne la vita e la libertà? Soltanto l’akedia e l’imbecillitas mentis stroncano il germogliare e il rifiorire d’ogni bellezza. Il bello e il buono convivono con la libertà perché si nutrono della verità. Creatività nella libertà della verità è soltanto della persona umana creata a immagine di Dio Bellezza e configurata in Cristo Logos-Sarx per lo Spirito Fos-Melos.

La vita, senza la Bellezza, si deforma in un lento dissolversi verso il vuoto del nulla. I mistici comprendono bene che la bellezza è inseparabile dalla natura umana creata a immagine di Dio, perché l’essere creato è bellezza mentre la sua negazione è radice di nichilismo che porta illusione, delusione e morte. Bene e male, Abele e Caino convivono in ogni persona umana. Il male e il Caino sono i distruttori dell’armonia universale, i responsabili di una Babele di voci dissonanti e discordanti. Ciò che è buono, ordinato e positivo nell’agire quotidiano è in perenne armonia con l’arte della Bellezza che distrugge le quotidiane maschere e le fangose bassezze. Immergersi nella contemplazione della bellezza è la via per incontrare Dio, Bellezza assoluta. Sant’Agostino, nel suo libro Le Confessioni, così prega: “Tardi ti ho amato, Bellezza tanto antica e sempre nuova; tardi ti ho amato” (Libro X,27). San Basilio Magno affermava che “per natura gli uomini desiderano il bello” (Regular fusius tractatae, PG 31, 912A). Senza bellezza l’uomo è un inquieto vagabondo in preda al nichilismo. L’assenza del bello, infatti, produce umanità malvagia, selvaggia e distruttiva.

Pavel Evdokimov, nel suo libro Teologia della Bellezza, racconta che Vladimir, principe di Kiev, decise di volere una sorta di religione sia per sé come anche per il popolo. Nel ricercare, però, non sapendo quale fosse quella giusta, invio dei diplomatici nei luoghi dove fiorivano le varie religioni. Un giorno, questi emissari, trovandosi a Costantinopoli, entrarono nella basilica di Santa Sofia e rimasero colpiti ed estasiati dallo splendore di quella sublime bellezza. Tornati a Kiev, con emozione ricolma di stupore, raccontarono al principe l’esperienza di quella visione paradisiaca: “Noi non sapevamo se eravamo in cielo o sulla terra, perché sulla terra non si trovava simile bellezza… Perciò non sappiamo cosa dire, ma di una sola cosa siamo certi: là Dio dimora con gli uomini” (p. 36). Così, il principe Vladimir decise di scegliere la religione cristiana.

Ogni bellezza naturale e artistica apre sempre la strada per l’incontro con il divino. L’uomo, infatti, creato a immagine e somiglianza di Dio Bellezza, ha ricevuto il dono di partecipare alla sua Bellezza e la capacità di rivelare, attraverso le sue opere artistiche, la somiglianza di quella stessa Bellezza divina (cf Gregorio di Nissa, De opificio hominis, 18).

Il gusto della magnifica esperienza estetica ed estatica, tra ascolto e visione, fu percepito dal teologo tedesco Romano Guardini in una sua memorabile visita alla Basilica Cattedrale di Monreale quando nel 1929 partecipò alle celebrazioni della Settimana Santa. Nell’appassionata descrizione contenuta nel suo diario di viaggio, annotò con meraviglia il modo in cui il Vescovo, i presbiteri e tutto il popolo di Dio partecipavano alle celebrazioni liturgiche. All’interno della bellezza architettonica, il fascino della visione di fede dato dalle icone musive si armonizzava con l’incanto sonoro della Liturgia. Ecco il racconto di quell’esperienza: “La giornata era piovosa. Quando arrivammo – era il Giovedì Santo –, la Messa solenne era già oltre la consacrazione. L’arcivescovo per la benedizione degli olii sacri stava seduto su un posto elevato sotto l’arco trionfale del coro. L’ampio spazio era affollato. Ovunque le persone stavano sedute sulle loro sedie, silenziose, e guardavano… Oro su tutte le pareti. Figure sopra figure in tutte le volte e in tutte le arcate fuoriuscivano dallo sfondo aureo come da un cosmo. Dall’oro irrompevano ovunque colori che hanno in sé qualcosa di radioso. Tuttavia, la luce era attutita. L’oro dormiva, e tutti i colori dormivano. Si vedeva che c’erano e attendevano…Quando portarono gli olii sacri alla sagrestia, mentre la processione, accompagnata dall’insistente melodia dell’antico inno, si snodava attraverso quella folla di figure del duomo, questo si rianimò. Le sue forme si mossero. Entrando in relazione con le persone che avanzavano con solennità, nello sfiorarsi delle vesti e dei colori alle pareti e nelle arcate, gli spazi si misero in movimento. Gli spazi vennero incontro alle orecchie tese in ascolto e agli occhi in contemplazione. La folla stava seduta e guardava…Tutti vivevano nello sguardo, tutti erano protesi a contemplare. Allora mi divenne chiaro qual è il fondamento di una vera pietà liturgica: la capacità di cogliere il ”santo” nell’immagine e nel suo dinamismo” (R. Guardini, Scritti filosofici, vol. II, pp. 169-170).

Leggiamo ancora un’ultima pagina in cui Romano Guardini descrive l’esperienza magnifica avuta a Monreale: “Molti anni fa mi trovavo il sabato santo nel meraviglioso Duomo di Monreale presso Palermo. La liturgia si svolgeva in tutta la sua solennità. Si battezzavano bambini e si ordinavano sacerdoti. Dopo alcune ore io ero alla fine della mia capacità recettiva, lo confesso. Ma il popolo non lo era affatto. Nessuno aveva in mano un libro o un rosario, ma tutti erano vivamente presenti. A un certo punto io mi voltai e guardai tutti quegli occhi rivolti alla sacra funzione. L’aspetto di quegli occhi spalancati non l’ho più dimenticato; mi sono immediatamente distolto da essi, come se non fosse lecito guardarli. Là c’era l’antica capacità di vivere guardando. Naturalmente, quelle persone hanno anche pensato e pregato; ma hanno pensato guardando, e la loro preghiera era preghiera contemplante, contemplazione” (ivi). Nel guardare pensando e nel contemplare partecipando, visione e ascolto si fanno preghiera in canto. Chi, nella Basilica Cattedrale di Monreale, partecipa alla celebrazione liturgica, scorge nei mosaici la Santa Scrittura dell’uno e dell’altro Testamento e la Santa Tradizione ecclesiale: “una sorta di specchio in cui la Chiesa ancora pellegrina in terra contempla Dio” (DV 7b).

Nella divina Liturgia, la bellezza sonora è l’espressione sublime della preghiera liturgica in cui si compie l’opera della nostra redenzione. Bellezza e Bontà sono a servizio del Mistero celebrato. Canto e musica sono segni che dilatano quanto la celebrazione ha in sé stessa. La bellezza liturgica è “sacramento” che svela e rivela il Mistero posto nelle nostre mani. Anche il canto di una breve antifona o di un semplice ritornello dev’essere condito di nobile semplicità e sapienza orante. La musica del silenzio diventa così grembo fecondo in cui la Parola risuona e s’incarna, viene accolta, adorata e mangiata. Noi veniamo trasformati nella stessa sostanza divina di cui ci nutriamo: ed è già concordia teandrica. La Parola che sgorga dal silenzio trinitario diventa parola umana che celebra in canto l’unione sponsale con Dio: ed è già colloquio divinizzante.

Mistero, Bellezza e Celebrazione, dunque, non devono essere separati, ma integrati e armonizzati. Sant’Ambrogio, teologo della musica per la Liturgia, mistagogo perché istruttore che introduce ai santi misteri, afferma che, nel canto dei salmi, la conoscenza della verità gareggia con la bellezza della grazia: “Certat in psalmo doctrina cum gratia”. Per il credente, e tanto più per l’artista liturgico, la Liturgia è regola di vita che lega al mistero di Cristo con vincolo nuziale. La Liturgia, dunque, dev’essere contemplata come una sorta di “laboratorio artistico” di divinizzazione in cui la volontà d’amore di Dio si esprime con i linguaggi della bellezza, della verità e della bontà.

Giuseppe Liberto