DAL QUIETO SILENZIO AL CANTO D’AMORE

Oggi siamo inondati da una fiumana di parole d’ogni genere. In un mondo così fatto, come si può continuare a rispettare la parola che ha perduto il suo potere creativo e la sua funzione comunicativa che alimenta la concorde comunione tra le persone? Quando le parole umane non sono più il riflesso della Parola divina che ha creato il cosmo e continua a ricrearlo, esse, perdendo il loro fondamento e il loro significato diventano false e ingannevoli. Pensiamo allora alla parola-fonte che definisce Dio: Amore!

Per i Padri del Deserto, la parola che nasce dal silenzio è lo strumento del mondo presente; il silenzio, che custodisce la parola, è il mistero del mondo futuro. La parola dell’uomo nasce e fruttifica se è innestata nel silenzio di Dio. Quando l’intelligenza non è più filtrata dal silenzio del cuore, genera un tumulto di confuse e insipienti idee che non sgorgano dal silenzio fecondo dello Spirito. Le tante parole dette e molte volte urlate, dicono nient’altro che insignificanze noiose, dubbiosità impigrite e incredulità verbose. La parola che non è radicata nel silenzio è inefficace, è “come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita”(1Cor 13, 1) scrive san Paolo parlando della carità.

Creazione e Redenzione si compiono nel grembo del silenzio trinitario. Dio onnipotente, con la sua Parola, in sublime bellezza e ricchezza, crea tutte le cose visibili e invisibili. Al culmine dei tempi, mentre un profondo silenzio avvolgeva tutto il creato, il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo in noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità (Gv 1,14). Dalla grotta di Betlemme andiamo al Calvario. L’evangelista Giovanni, dallo strazio fisico della morte di Gesù, fa trasparire la Regalità del Messia: cuore del mistero in cui, nel silenzio, si rivela l’Agape di Dio. Il carattere messianico vittorioso della morte avrà il suo culmine nella Risurrezione. Gesù entra nell’ora della sua morte quando, nel misterioso silenzio del Padre, prima di chinare il capo e spirare, dice l’ultima parola: Tutto è compiuto (19,30). La croce del Golgota diventa il trono glorioso di un Regno che non avrà mai fine: Regnavit a ligno Deus. Dal silenzio di questo drammatico stupore, nel cuore d’umiliazione della Kenosis nasce la Chiesa di Cristo.   

San Giovanni della Croce, parlando di Dio come di colui «il cui solo linguaggio è l’amore silenzioso», scrive: «Il Padre non dice che una sola Parola, ossia il suo Figlio, e la dice in un silenzio eterno. L’anima, quindi, deve udirla nel silenzio» (Massime 147). Dio, nessuno l’ha mai visto (Gv 1,18) e ancora: Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il figlio vorrà rivelarlo (Mt 11,27). Il Padre si svela e il Figlio è la Parola che lo rivela. Ben sappiamo che l’ascesi del vuoto conduce a un freddo mutismo che ascolta soltanto se stesso. Il fuoco dello Spirito, invece, riversando nel cuore umano l’acqua viva del Verbo, trasfigura il silenzio in ascolto della Parola per l’incontro con l’ineffabile mistero divino che rende capaci di parlare la stessa Parola di Dio. Soltanto così la parola umana si trasforma in preghiera come dialogo con Dio in cui l’ascolto della sua Parola si armonizza con la risposta d’amore della nostra fede. Il silenzio diventa così colloquio d’amore orante tra le due intimità, la divina e l’umana.

San Luca nel suo Vangelo ci descrive quel momento commovente in cui, dal silenzio della preghiera di Cristo, sgorga spontanea la richiesta di uno dei suoi discepoli: Signore, insegnaci a pregare (11,1).Dal cuore silente di tutti i discepoli di Gesù dovrebbe sempre sgorgare spontanea la stessa struggente invocazione che chiede al Maestro il vero modo di rivolgersi a Dio con lo stesso melos con cui il Figlio si rivolge al Padre. Lo Spirito d’Amore che nell’eterno silenzio procede dal Padre e dal Figlio, nel silenzio dell’orante feconda e illumina la preghiera del Pater che Cristo ci ha insegnato.

Da questa preghiera nascono le molteplici preghiere di lode, di supplica e di rendimento di grazie, e anche la stessa preghiera d’Israele, assunta da Cristo e dalla Chiesa primitiva, soprattutto con il canto dei Salmi.

In una società loquace e parolaia il silenzio può diventare realtà temibile che crea o disagio e alienazione egoistica oppure verbosità snervante, nevrotica e distraente. Il vero silenzio è qualità del cuore che rivela la verità nella carità. Oggi, nelle celebrazioni liturgiche, quella sorta di religioso frastuono festaiolo e divertente diventa rischio pericoloso che serve soltanto a riempiere il vuoto di fede che urla verso una sorta di un “dio idolo”. Il silenzio orante è apertura di cuore alla parola di Dio. Nella Lettera ai Romani san Paolo ci istruisce che se con il cuore si crede con la bocca si canta la fede! È il silenzio fecondo che richiede un cuore capace di aprirsi a ogni comunione di vita e, dilatato dal fuoco della carità divina, provoca quell’impulso che è testimonianza e annunzio delle meraviglie che l’Amore di Dio opera nel credente.

Il silenzio, dunque, non è mutismo del vuoto interiore o incapacità di comunicare per motivi psicologici, ma l’alveo fecondo dell’amore divino da cui la parola attinge l’energia del pensiero e l’efficacia dell’incantum che esprime la festa del Paradiso, lì dove si vive eternamente immersi nel silenzio di gloria dell’amore adorante e contemplante.

La celebrazione dei Santi Misteri celebrati nella divina Liturgia è anticipazione e pregustazione del vivere paradisiaco. La celebrazione liturgica è evento di silenzio interpuntato da due vibrazioni di luci sonore: il Verbo del Padre che viene a noi nel sacramento e la nostra lode che s’innalza a Dio come profumo d’incenso. Il silenzio è luce che fa risplendere la Parola affinché diventi vivificante; nel silenzio, la luce fa germogliare la Parola nel cuore del credente perché si trasformi in canto di lode, di supplica e di rendimento di grazie. Il canto diventa l’ornamento del testo che ri-dice la Parola per rivelare le sublimi verità. Col canto della Liturgia, dunque, non si è esecutori in concerto per spettatori, ma ministri oranti che, attraverso il nobile e semplice linguaggio musicale, offrono a Dio, con intelligenza spirituale, le lodi che immergono nel silenzio in splendore del suo amore eterno e infinito.

Giuseppe Liberto

O ALBERO GEMMATO NEL GIARDINO

Così canta il celebre inno della Croce nella Liturgia bizantina del VII secolo:

                                                              Oggi è sospeso al legno                                       

Colui che ha sospeso la terra sulle acque,

Cinto di una corona di spine, il Re degli angeli.

Una porpora vergognosa riveste Colui che ha avvolto il cielo di nubi.

Riceve degli schiaffi,

Colui che nel Giordano liberò Adamo.

Appeso con dei chiodi, lo Sposo della Chiesa.

Trafitto da una lancia, il Figlio della Vergine.

Adoriamo la tua passione, o Cristo;

mostraci anche la tua gloriosa Risurrezione.

La tua croce, o Signore,

è vita e risurrezione per il popolo tuo.

              Nel secolo V, anche la pellegrina Egeria parla di queste due Feste, ma in realtà si tratta dell’anniversario della Dedicazione di due basiliche, quella del Martirium, costruita sul Golgota e quella dell’Anastasis sul Sepolcro di Cristo. Egeria scrive che questa memoria anniversaria si celebrava con la massima solennità poiché ricordava, appunto, il ritrovamento della Croce. Il 14 settembre, almeno sin dal secolo VII, sembra la data fissata per fare memoria dell’evento. In Occidente, la festa cominciò a essere celebrata al tempo in cui papa Sergio (687-701) scoprì un frammento della Croce che da allora fu esposto alla venerazione dei fedeli. La storia ci tramanda che il giorno del Venerdì Santo la santa reliquia era portata dal Laterano alla chiesa di S. Croce in Gerusalemme e, dopo il bacio e l’adorazione dei fedeli, era riportata al Laterano.

              La Croce è adorata per il mistero di redenzione contemplato nel suo aspetto d’immolazione, attraverso la quale viene la vittoria sul peccato e sulla morte. È paradossale il fatto che questo strumento di umiliazione e di morte, diventi segno di esaltazione e di vita. Si tratta di celebrare Gesù Cristo, il Figlio del Padre che ci ha salvato, e continua a salvarci nello Spirito, grazie alla sua morte e alla sua gloriosa risurrezione.

              Nel Vangelo di Giovanni, Gesù, rivolgendosi ai cristiani del futuro e insegnando loro che la verità su di Lui non consiste nell’inerte ricordo di fatti remoti, ma nella sua indefettibile presenza, quella cioè in cui vive la Chiesa nell’oggi della storia, con maestosa semplicità dice: Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io Sono e che non faccio nulla da me stesso, ma parlo come il Padre mi ha insegnato (Gv 8,28).

Io Sono è la definizione del Dio della Gloria (Es 3,14), ed è equivalente al nome di Iahwè, cioè di Colui che è. Si tratta allora della vittoria essenziale di tutto il genere umano. Ormai è vinto il senso della colpa ed è distrutto per sempre lo stesso peccato, perché Cristo portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce (1Pt 2,24). 

              Il libro dei Numeri ci narra la celebre storia del serpente di metallo nel deserto, non strisciante ma issato su un’asta. Tutti gli Ebrei, morsi dai serpenti velenosi, guardando quella figura, non morivano. Dio voleva educare il suo popolo per liberarlo da una religione naturale e magica che era quella dei cananei e puntare invece lo sguardo di fede su Jhwh, unico salvatore-guaritore. Anche nell’incontro notturno con Nicodemo, al culmine del monologo rivelatore, Gesù spiega che quel segno era figura di Lui e dice: E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna (Gv 3,14-15). San Giovanni usa la parola “innalzato”, in greco upsozenai, per indicare sia l’innalzamento di Cristo sulla croce sia l’esaltazione gloriosa. La Gloria non è premio alla croce, ma la stessa Croce è già Gloria: l’Elevatio Crucis è Exaltatio Gloriae. La croce, lungi dall’essere un segno di fallimento, è trionfo e gloria. L’esaltazione designa, infatti, il potere regale di Cristo.

              Nel quarto canto del Servo di Jhwh, Isaia, con tocco profetico, istruisce che l’esaltazione del Servo, dopo le sue sofferenze, era considerata come l’esercizio di un potere regale: Ecco il mio Servo… sarà esaltato (52,13). Perciò io gli darò in premio le moltitudini e con i potenti dividerà i trofei (53, 12). Il tema dell’abbassamento-esaltazione è anche cantato da Paolo nella lettera ai Filippesi: Cristo si è umiliato, Dio l’ha esaltato (cf 2, 5-11). La Croce è l’abisso dell’abbassamento ma anche l’apice dell’esaltazione nella glorificazione pasquale. Ogni nostra vittoria è sempre inchiodata su quel legno mortale di umiliazione e di esaltazione.L’antifona d’ingresso canta: Di null’altro mai ci glorieremo se non della croce di Gesù Cristo, nostro Signore; egli è la nostra salvezza, vita e risurrezione… Per mezzo di lui siamo stati salvati e liberati (cf Gal 6,14).

              Da quel primo Venerdì Santo, l’ora terza rimane inchiodata nella mente e nel cuore di ogni uomo che vive, nel tempo della storia redenta, il mistero di Cristo morto e risorto. Da quel Venerdì Santo, la Croce gloriosa l’abbiamo sempre sotto gli occhi, la portiamo tra le mani, appesa al collo, tra i grani del rosario, in cima agli altari. Il Cristo in croce è dipinto su tela, è scolpito nel legno, è fatto di bronzo o d’argento, d’oro o di madreperla. C’è però il pericolo che rimanga puro ornamento di un prezioso oggetto d’arte! Se la bellezza artistica fa dimenticare il dramma dell’agonia e della morte di quell’ora terza sino all’ora nona quando lo crocifissero, abbiamo tradito il Cristo Redentore. Quell’arte non sarà mai bellezza che salva ma arte che distrugge.

Il Cristo della beata Passione deve essere contemplato con gli occhi del cuore della Madre e con lo sguardo d’amore di Giovanni, il Discepolo che Gesù amava, altrimenti saremo dei veri traditori dell’Amore che redime.

              Nell’incontro della risurrezione, anche se non è dato, come a Tommaso, di toccare con le mani il segno dei chiodi, a noi è dato, nel mistero dell’Eucaristia, di poter sfiorare per grazia il Pane spezzato e offerto sulle mani per nutrirci di Lui. Nello stupore della transustanziazione, chi presiede celebrazione canta: Mistero della fede! E l’assemblea, avvolta dallo stupefacente Mistero, risponde acclamando: Ogni volta che mangiamo di questo pane e beviamo a questo calice, annunziamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta. Ogni celebrazione eucaristica è l’apice dell’esaltazione gloriosa della Croce. La divina Eucaristia esalta il mistero di morte e di risurrezione di Cristo. La Chiesa, con la parola e l’azione, ne annunzia e ne proclama il valore infinito che trascende lo spazio e il tempo e che si perpetua sempre immutato con tutta la sua potenza di vita sino all’eternità beata.

Giuseppe Liberto

MISTERO E NATURA UMANA

La natura umana che è sempre stata la bussola dei filosofi, dei teologi, degli artisti corre il rischio di essere stravolta, equivocata e vanificata. Il fatto di non avare più un fondamento comune preferenziale per parlare della persona umana e della sua identità conoscitiva, volitiva e operativa spinge ad adottare misure convenzionali riduttive e perciò molto discutibili per definire chi è la persona umana. L’individuo umano è così ridotto a realtà funzionale manipolabile e strumentalizzabile distruggendo l’idea religiosa, metafisica e finalistica di natura umana. Sappiamo bene che storicismo, materialismo e scientismo riducono la persona umana a trame di relazioni storiche divenendo così mezzo di cui altri possono disporre a loro arbitrio.

La Santa Scrittura rivela l’idea della creazione uscita dal nulla dalle mani di Dio. Dio crea l’uomo e la donna a sua immagine e somiglianza. La persona umana, nella sua specifica natura, è intelligente e libera. La natura divina lo rende superiore in dignità a tutte le altre creature del regno vegetale e animale e questo lo rende capace di vivere, volere, gustare, valutare, conoscere l’intera realtà creata sotto forma di verità, bellezza, bontà con doveri morali e spirituali. La persona è così relazionata, analogamente a Dio, al mondo e ai suoi simili secondo le diverse guise e non come individuo strumentalizzato e forgiato dalla società nel bene e nel male impelagato soltanto nell’agire affaristico sino a parossismo.

Un antico proverbio cinese ammonisce: «Se hai due soldi, compra con il primo un pezzo di pane e con il secondo un fiore: il pane ti farà vivere, il fiore ti darà una ragione per vivere». In quel fiore vedo la poesia della vita che, dopo il pane che nutre, è bellezza che incanta. Gesù ci insegna a incantarci nell’osservare la bellezza della natura e in questo è maestro. Quel guardare indugiando, sulle sue labbra diventa poesia istruttiva che rivela verità: Guardate gli uccelli del cielo…Osservate come crescono i gigli del campo…Con questi toni poetici Gesù ci istruisce come dobbiamo abbandonarci alla divina Provvidenza (cf Mt 6, 28-30). Osservare un fiore, contemplare un tramonto, nutrirsi di bellezza è già poesia. Lo scolorirsi dello sguardo induce sempre a relazioni squallide e pallide, a costruzioni asettiche di cuore e di mente, senza brividi di tenerezza. E’ necessaria la fragranza del pane come anche il profumo di un fiore! Accanto ai campi di grano germoglino anche i prati in fiore! Frutti e fiori sono “sacramenti” di bontà e di bellezza che insieme costruiscono l’uomo in armonia con se stesso, con i propri simili e con la natura.

Gli occhi del cuore e la poesia della vita fanno contemplare e gustare l’Invisibile Eterno Infinito. Questa sublime esperienza ci salva anche dall’idolatria che non è solo il peccato degli atei per i quali Dio non esiste, è anche il peccato dei falsi credenti che scambiano Dio con le realtà terrene. La poesia non ha come metro di giudizio il consumismo o la mercificazione che insidiano i valori più alti dello spirito umano. La poesia scaturisce dal mistero dell’uomo che è alla ricerca della Luce di Verità e della Bellezza di Bontà. Fare poesia è cantare col cuore la Verità dando voce al fascino e al dramma della vita.

Il linguaggio poetico è canto di chi è capace di ascoltare col silenzio del cuore e di chi sa vedere con l’intuito della ragione. Lo sguardo caldo e raffinato e la voce potente e delicata, spalancano insieme le porte della vita per inebriarsi della verità. Il punto di concentramento del poeta è nella sua anima, dove contempla un’impressione, un’idea, una suggestione che poi esprime attraverso il linguaggio poetico. In effetti, l’arte della poesia serve per dare fragranza alla vita con occhi assetati di umanità e per attraversare la storia con serenità e coraggio, nonostante le debolezze, le preoccupazioni e le sconfitte. Ogni artista esprime idee, sentimenti e ideali che ogni uomo può liberamente rivivere, perché rivelano parte della coscienza e dell’esperienza umana in ogni luogo e in ogni tempo.

La poesia richiede parole che diventino vita e non rimangano suoni squallidi, vuoti e talvolta sporchi di insensatezza e di degrado. L’arte poetica esige l’in-canto delle parole che sgorgano dal cuore, e dimorano nel cuore per nutrire e arricchire lo spirito.

Nella pittura, lo sfondo dell’icona, con termini tecnici è chiamato “luce”, perché con essa l’iconografo dipinge i personaggi che sono immersi in una trasparenza che è pura e trasfigurante luminosità. Nella poesia è la parola che è luce nell’armonia delle frasi che cantano il mistero, l’uomo e il cosmo. Nella musica è la parola che si canto. Fare arte poetica è dunque realizzare Amore ricercando Verità nella Bellezza: magnifico e drammatico cammino dell’uomo pellegrino dell’Assoluto!

All’inizio delle Confessioni, sant’Agostino scrive questa famosa frase: Tu excitas, ut laudare te delectet quia fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te (1, 11). Con questa frase, dandoci la vera dimensione umana e cristiana, Agostino, è proteso ansiosamente verso Dio con le sue intime e profonde aspirazioni del cuore inquieto in cerca del divino. Con le due frasi: Tu excitas e fecisti nos, da grande convertito,Agostino mette in evidenza l’iniziativa divina nel campo della grazia e della creazione. Poi espone il piacere gioioso della lode orientata verso Dio che è il gesto più nobile e degno dell’uomo ut laudare te delectet. E infine esprime l’insoddisfazione umana e il riposo in Dio: inquietum cor e requiescat in te. Agostino è in ricerca perché il suo pensiero e la sua vita sono in continua evoluzione. Egli non conosce la tranquillità di chi, chiuso nella mediocrità quotidiana, è pago di se stesso senza apertura di cuore, senza lo slancio degli ideali, senza il gusto della bellezza. Lui è l’inquieto che cerca e che ama cercare perché l’amore è attesa, sorpresa e possesso, ecco perché vive in uno stato di tensione.

L’elemento dinamico della conoscenza di se stessi è indispensabile per arrivare a Dio e la conoscenza di Dio è necessaria per conoscere se stessi. Solo nello splendore della luce di Dio si può ritrovare se stessi. L’inquietudine è verità che illumina la mente, è felicità che appaga il cuore, è entusiasmo che brucia d’amore creando bellezza. E’ un costitutivo carattere dell’uomo perché e il segno del rapporto tra creatura e Creatore. E’ anche segno primordiale del modo con cui Dio interviene per ricuperare l’uomo e ricrearlo sempre a sua immagine in bellezza e in bontà.

Giuseppe Liberto 

CREARE BELLEZZA PER COMUNICARE AMORE

Faccio mia la celebre frase di Pascal: le coeur a ses raison que la raison ne connait point. Offrire i propri scritti è un modo per fare un dono a chi possiede la capacità di accoglierli con intelligenza ed entusiasmo. La gratitudine per il dono ricevuto si esprimerà permettendogli di diventare fecondi. In effetti, ogni “scritto” l’ho sempre considerato come “incontro” che si sviluppa in un dialogo cor ad cor tra scrittore e lettore.

Spesse volte, a ben rifletterci, la nostra condizione di uomini potrebbe farci paura perché ci accorgiamo di essere circondati da abissi. Dal soffio dell’Eterno Infinito che avvolge il creato. Dall’immensità degli spazi che s’immergono prodigiosamente nel nostro piccolo mondo e nella nostra povera esistenza. Dal silenzioso movimento del tempo che, misterioso e prezioso tiranno, protagonista degli avvenimenti passati, presenti e futuri, compone il fascino, talvolta drammatico, della nostra vita fino a farla diventare, nonostante la sua apparente brevità, una storia senza fine. Da noi uomini, protagonisti di questa “storia senza fine”, che, saturi di caducità, sofferenze, ansie, fatalità, miserie e impotenze, dimentichi talvolta delle realtà essenziali che ci nobilitano e ci elevano, insensibili all’invito dell’Ineffabile ci si tuffa in puerili e momentanee occupazioni, misconoscendo le grandi e fondamentali finalità della vita.

Eppure l’uomo da sempre naviga nel mondo affascinante dell’arte, quasi sacramento divino, che si rivela nell’ascolto, nella visione e nel gusto di quella sublime bellezza che seduce e incanta, nobilita ed eleva, attira e trasfigura. L’arte del bello, però, non è mai frutto del caso ma efficace sintesi di ricerca e laboriosa opera di perfezione. Se l’esecuzione di una partitura sonora è il risultato dell’accanito esercizio della tecnica manuale, l’elaborazione spaziale si ottiene attraverso l’estenuante verifica di pratiche parziali sulle proporzioni, sulle tecniche, sui dettagli dei materiali ricondotti alla loro unitarietà finale.

La storia ci istruisce che fare arte vera è sempre fatica per ricreare frutti di bellezza. Come in natura, così in arte: dopo la semina d’autunno e il silenzio creativo dell’inverno, arriva l’esplosione delle gemme di primavera che attende il prezioso raccolto dei frutti al sole dell’estate. La natura è già essa stessa arte proseguente l’opera sua nello spirito umano. Da ciò deriva l’amore dell’artista per la natura; ispirandosi a essa egli vi si riconosce, e al contatto con essa, il costruttore d’arte assume coscienza del proprio genio. Sappiamo bene che l’arte, come la natura, è creatura viva, non ha nulla a che vedere con il simbolismo pedante, oscuro e pretensioso. Ispirarsi è arte, ma imitare e scimmiottare, riciclare o scopiazzare sono segni di aridità e di miseria. L’arte è creatività originale e personale.

Mi domando: ma il pensiero ha nulla a che fare con l’arte? I cosiddetti “esteti” dicono che l’artista non deve preoccuparsi dell’idea, poiché la forma è già tutto. Separare, però, la forma dall’idea, significa sopprimere l’arte che consiste nella loro compenetrazione. La forma si elabora nello spirito e nel pensiero, non nella costrizione della stessa forma. L’arte è idea vivente. L’idea, divenendo centro della vita interiore, crea il corpo d’immagini di cui si riveste. L’idea non è nulla senza la forma, perché è l’idea che crea la sua forma adeguata. Quanto più la forma rende visibile l’idea, tanto più è arte che crea bellezza. L’idea estetica non è compiuta se non è espressa nell’armonia della forma, altrimenti sarebbe un desiderio di vita che non nasce alla vita. In effetti, spirito e corpo in simbiosi sono la vita dell’uomo. Non basta, allora, avere l’idea se non si ha la capacità tecnica di esprimerla artisticamente attraverso la forma. Non basta, infatti, essere bravi nella forma se non si possiede l’idea. Chi pretende di fare uscire la bellezza da una formula stereotipa e consueta, s’inganna perché crea un lavoro senza vita.

L’opera d’arte si compone nello spirito attraverso la forma. Il pensiero del pittore o dello scultore è la visione della loro tela dipinta o della statua plasmata; così come il pensiero del musicista si esprime attraverso l’ascolto della sua opera musicale. Il modo, poi, di manifestare il pensiero attraverso la forma, si chiama “stile” che vuol dire individualità, cioè, modo proprio di pensare, di sentire, di rivelare l’idea. Possiede lo stile chi ha cose proprie da dire ed è capace di manifestarle in modo eminentemente personale. Si suole dire che lo stile è l’uomo, infatti, è il sigillo dell’artista. Bisogna puntualizzare che per stile dell’artista, non si può intendere solo il modo di esprimersi attraverso la sola forma, ma il modo di manifestare il pensiero e il sentimento attraverso la bontà della bellezza. Non basta, quindi, saper comporre perfettamente attraverso la forma; se manca la scintilla del pensiero, la grazia dell’originalità, la raffinatezza del gusto, non esiste arte viva. Se non esistesse l’eufonica polifonia degli stili, il mondo apparirebbe piatto, monotono e uniforme. Sta tutto qui il fascino dell’arte: l’apparire e il sentire del pensiero in tutta la sua luminosa e originale bellezza interiore ed esteriore.

Nel comunicare arte musicale, le vibrazioni sonore devono mettere in moto le energie dell’anima che ridestano e riabilitano il coinvolgimento interiore di tutto l’essere. In effetti, attraverso l’arte è necessario prendere non soltanto la forma esteriore ma anche la forza interiore. Il musicale non è solo trasferimento d’informazioni ma è comunicazione affettiva capace di suscitare dei legami concordanti attraverso il tono della voce, l’incontro degli sguardi, il gesto espressivo, il modulare dei comportamenti. Tutto deve comunicare quanto sta per avvenire!

Pitagora affermava che il logos creò l’universo attraverso il melos. Il filosofo aveva intuito che Dio, cantando, creava ogni cosa dal nulla. Il libro della Genesi, infatti, descrive il Creatore che canta mentre plasma il cosmo con le sue mani. Dopo che dalle sue dita usciva ogni creatura, cantava con meraviglia che era cosa bella e buona (cf 1, 1-31). Il canto di Dio, così, creava il cosmo bello e buono. Ogni opera artistica deve possedere queste due qualità divine in armonia tra di loro: bellezza e bontà. Bellezza da imparare e bontà da gustare sono gesti d’intelligenza e di sapienza per rigenerare e ridonare opere belle e buone. La creazione in bellezza è, dunque, il modo sublime con cui Dio dialoga con l’uomo. La bellezza in armonia diventa così concordanza tra divino e umano. La divinità incarnata e l’umanità divinizzata sono culmine in cui il Logos-Sapientia crea e ricrea in via pulchritudinis il Melos del duetto teandrico d’amore sponsale.

Con-cordanza è armonia di mente e di cuore. Syn-opsis è abbraccio con un unico sguardo della sinfonia dei cuori. Concordia è arte sinfonica che ascende dal cuore alla ragione e dalla ragione alle sfere dell’eterna, infinita bellezza, per ridiscendere amore trasfigurato e trasfigurante che armonizza divinità increata e umanità creata nella sinfonica Pentecoste dell’amore universale.

Giuseppe Liberto

CELEBRARE IL DONO DELLA VITA

Tempo, Spazio ed Energia.
Il ritmo del tempo e l’energia dello spazio sono misura e forma d’ogni storia creata. Essi, tra fascino e dramma, intessono la trama magnifica del nostro vivere umano.
Da sempre i musicisti lavorano col ritmo, e nel ritmo creano l’icona sonora della bellezza e della bontà. Il ritmo è, per eccellenza, cambiamento e divisione in modulare isocrono, ordinato e vario. Il ritmo è l’alveo fecondo del tempo e l’energia pulsante che costruisce la storia, tra passato e futuro, nel presente trapunto di nostalgie e di speranze, di sogni e di bisogni, di attese e d’incontri. Occorre però avere mani delicate per essere capaci di sfiorare per grazia i petali del vivere e ricavarne melodie ineffabili. Tra fascino e dramma il ritmo del tempo scorre, fuggendo verso l’Eterno Infinito.
Il passato vive nella memoria del presente.
Il presente è luce di visione.
Il futuro è speranza d’attesa.
Il passato e il futuro nel presente diventano musica dell’esistenza per il cantico della vita. Sappiamo bene però che fare arte per ricreare frutti di bellezza e di bontà è sempre fatica. L’arte, come la natura, è creatura viva, non ha nulla a che vedere con il simbolismo pedante, oscuro e pretenzioso. L’arte vera è fondamentalmente creatività originale e personale. Nella Chiesa di Cristo, la profezia si rivolge pure all’arte che, come la scienza, se non va avanti e si rinnova, insterilisce e muore.

Oggi, 21 agosto, la Chiesa celebra il grande Papa San Pio X. Giuseppe Sarto visse tra due secoli, nacque nel 1835 e morì nel 1914. Il suo motto Instaurare omnia in Christo, fu premonitore di quel cammino pastorale che aveva già iniziato da Vescovo a Mantova e a Venezia e che, appena eletto Papa, lo condusse a pronunciarsi, con la forza e l’autorità di un autentico pastore. Fu precursore del Concilio Vaticano II nel rinnovare la vita della Chiesa, in particolare per la formazione catechistica, liturgica, pastorale, missionaria e apostolica. Attraverso una “Istruzione” quasi codice giuridico della musica sacra, il suo Motu proprio fu allora il tentativo di un vero pastore della Chiesa per rinnovare il canto e la musica all’interno della santa Liturgia. E’ fuori dubbio che l’intervento di Papa Sarto risentiva dei condizionamenti del contesto storico e culturale in cui era inserito, mentre la prassi seppe cogliere lo spirito del documento e andare ben oltre i suoi stessi limiti. In particolare, certe prese di posizioni radicali – come quelle contro il “convenzionalismo” teatrale – troveranno spiegazione nella necessità di frenare gli abusi e gli eccessi di quell’epoca.

La risposta al Motu Proprio di Pio X trovò la sua attuazione nella figura di don Lorenzo Perosi, illustre sostenitore del documento. Egli concordava il gusto di una solennità vocale e il sapore melodico dell’opera, con un suo linguaggio semplice, nobile e comunicativo. Don Lorenzo, stimolato dall’amico Patriarca Sarto, aveva intuito la forza trascinatrice e mistagogica del segno sonoro quale epifania del Mistero celebrato. Il discorso sull’evoluzione della legislazione liturgico-musicale, dal Motu Proprio del 22 novembre 1903 a Musicam Sacram del 5 marzo 1967, traccia un lungo cammino che, col suo significato storico e logico, segue l’evoluzione di riflessioni e di studi che affondano le loro radici nel movimento liturgico, biblico ed ecumenico. A conclusione di un lento e irresistibile processo di riforma, giunge, con vitalità feconda e provvidenziale, sino al traguardo del Sacrosanto Concilio Vaticano II. In effetti, il canto e la musica per la divina

Liturgia devono essere sempre arte vera e santa e, proprio per questo, strutturalmente poietica e culturale.

Oggi, sono trascorsi 80 anni da quando ricevetti la vita dal Creatore di “tutte le cose visibili e invisibili” attraverso i miei genitori Maria e Camillo. Celebrare l’anniversario della nascita è come approdare alle quiete rive del vasto mare di questa sublime esperienza di vita per poterla rivivere come dono e come grazia. Ogni approdo comporta anche il fascino di un nuovo imbarco, per continuare a ripartire verso nuove mete e avventure della vita consacrata all’Amore per il servizio alla Chiesa di Cristo. Approdare e imbarcarsi sono una sorta d’intreccio tra Amore donato e amore ridonato che sono coordinate storiche indispensabili per condurre l’umano cammino tra mistero, fascino e dramma. Sappiamo bene che il fluire del tempo, alimentato dall’Amore divino “sempre antico e sempre nuovo”, è “Dono e Mistero”. Questo movimento, iniziato dal Fiat creativo, non è staticità e chiusura ma cammino verso quell’Eterno Infinito che ci immergerà nell’oceano dell’Amen glorificativo, quando, come dice sant’Agostino, tutto il nostro vivere sarà eterno canto di Amen e di Alleluia.

Se il 21 agosto ricordo la nascita alla vita, il 5 settembre ricordo la rinascita alla vita cristiana attraverso il battesimo celebrato qui, in questo sacro fonte battesimale, dall’amatissimo Mons. Antonino Palmeri. Quell’anno c’era anche Padre Ignazio Sgarlata. Dopo la sua ordinazione a Monreale nel 1941, a causa della guerra tornò a Chiusa Sclafani dove, per tre anni, lavorò in entusiasmo accanto a Mons. Palmeri. Poi, nel 1944, il Vescovo lo richiamò a Monreale. Come non ringraziare Palmeri, Orlando e Sgarlata che, attraverso l’istruzione e la pratica, furono i miei maestri di Sacra Scrittura, di Liturgia e di musica per le celebrazioni liturgiche?

Sono solito ripetere che “ricordare è ringraziare”! Nel ricordo, infatti, il passato vive nella memoria del presente, il presente è luce di visione, il futuro è speranza d’attesa. Tutti siamo stati creati dall’Amore divino per amore e per ridonare amore. Se viviamo dunque vuol dire che siamo frutto prezioso di quell’Amore. Siamo convinti che il creato vive e va avanti perché l’Amore lo conduce. Nel ricordo c’è anche il ringraziamento a Dio Padre Onnipotente e Fonte della vita; a Dio Figlio fatto carne della nostra umana natura e Redentore dell’uomo; a Dio Spirito Santo, Principio della nuova creazione.

Ogni vocabolario possiede due brevi parole impegnative: “Si” e “Grazie”. Il “Si” ricorda l’amore donato e ricambiato attraverso i doni della Vita, della Grazia e della vocazione. Il “Grazie” lo dice chi è consapevole di avere ricevuto i doni e apre il cuore per accoglierli e per custodirli. Ricordare i doni della vita, della grazia e della vocazione è cantare col cuore e inneggiare con la voce, la lode e il ringraziamento che sgorgano dall’immenso e sublime “Rendimento di Grazie” che è “Eucaristia”.

Nella celebrazione dell’Eucaristia vorrei innestare il ringraziamento alla lunga litania dei familiari, dei parenti degli amici. Ricordare e ringraziare significano che non siamo mai soli a costruire la storia personale e comunitaria. Il grazie affettuoso che sgorga dal profondo del cuore è per tutti voi fratelli e sorelle carissimi che vorrei chiamarvi tutti e ciascuno per nome. In effetti, stasera siete qui convenuti per lodare e ringraziare insieme la Trinità Beata per il dono della vita.

Ogni nostro “natale” è dunque Dono e Grazia. Dono di Grazia che si trasfigura in inno d’Amore che col salmista ci fa cantare: O Signore, insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio (Sal 90, 12). Ogni mattino si ricomincia a vivere il preziosissimo frammento di ogni giorno che è dato a noi in dono e che pure passerà confidando nel Signore. E’ questo il contare i nostri giorni in attesa del suo giorno quando si realizzerà la

speranza della risurrezione e il premio della vita eterna. Se la durata della vita umana è contata, è saggezza pensarci! Questa lucidità, però, non è incubo che inquieta e ci esclude dalla gioia, essa è percezione della presenza di Dio che illumina tutti i giorni che Egli ci offre in dono. Solo così il cuore saggio dell’uomo approderà alla sapienza, la sola che può guidare l’umano pellegrinaggio dell’esistenza. Vivere è ricominciare ogni giorno la vita in serenità, gioia ed entusiasmo.

21 agosto 2023
Chiesa Madre di Chiusa Sclafani

Giuseppe Liberto