GRIDO LACERATO DELL’UMANITÀ FERITA

Le due dolci sillabe della parola “pace” risuonano sempre armoniose all’ascolto, in contrasto alla gutturale cacofonia della brutta parola “guerra”.  Se la pace è dono sublime dello Spirito, la guerra è sempre opera di satana l’anti Dio. Se è satana che si serve dell’uomo per distruggere Dio, è sempre l’uomo che rimane distrutto soccombendo alle sue tentazioni.

Generato dalla superbia e dalla presunzione, l’egoismo umano genera sempre odio, discordia, divisioni e guerre distruttive. Il suo vero nome è “schizofrenia”. I mali peggiori sono determinati da un duplice egoismo: quello “individuale” che innesca divisioni nel rapporto interpersonale e quello “sociale” in cui il desiderio del dominio e del possesso determina, in tutti gli ambienti, profani e sacri, il grande caos che legittima le guerre feroci.

I rapporti tra individui e società non sono sempre costruiti sulla necessità della convivenza concorde, ma spesso sulle dinamiche delle opposizioni. Non si cammina insieme all’altro per ricercare il bene comune e per costruire la civiltà dell’amore ma si vive soltanto per affermare se stessi e far prevalere gli interessi personali. In un mondo assediato da conflitti d’ogni tipo, parlare di Mistero d’Amore potrebbe sembrare “utopia”, cioè, “discorso senza luogo”. L’arte della fede insegna e conferma che il Mistero d’Amore ha il suo luogo: il cuore, la profondità dell’uomo interiore, lì dove l’Amore divino pone il suo sigillo.

Il Sacrosanto Concilio Vaticano II, nella Costituzione Gaudium et Spes, raccogliendo il grido di dolore di Pio XII e dei suoi successori,ha dato un forte richiamo ai popoli e ai loro responsabili, quello di “dichiarare guerra” a qualsiasi tipo di guerre: “Mai più guerra; mai più guerra!”. Fu questo anche il grido di vita che ribadì Giovanni Paolo II ad Assisi, il 24 gennaio 2002, in occasione della giornata di preghiera per la pace nel mondo: “Mai più violenza! Mai più guerra! Mai più terrorismo! In nome di Dio, ogni religione porti sulla terra: Giustizia e Pace, Perdono e Vita, Amore!”

L’appello della Chiesa è il grido di sempre dell’intera umanità ferita e lacerata dalla violenza, dall’uso delle armi, dalle morti ingiuste e dagli assassini crudeli. Chi semina morte nei fratelli non è degno di chiamarsi uomo: il suo nome è Satana! San Luca ci racconta che quando i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo per togliere di mezzo Gesù, fu quello il momento in cui Satana entrò in Giuda, detto Iscariota, che era uno dei Dodoci (22, 1-3). Satana è il seminatore di distruzione e morte! Se nel mondo, la carneficina umana aumenta, non può che sconvolgere e indignare l’indifferenza internazionale di fronte a questa specie di macabro orologio della barbarie omicida.

L’esistenza e la diffusione di sofisticati e insidiosi strumenti di morte contraddice gli sforzi che si compiono per la limitazione e il controllo delle più potenti armi di distruzione di massa, in vista di un generale impegno di disarmo. La messa al bando delle armi richiama sia la responsabilità dei fabbricanti sia quella dei mercanti i quali, pur di trarne profitto, compiono gesti vili e obbrobriosi finalizzati a uccidere i fratelli. Le armi di qualsiasi tipo sono sempre strumenti intrinsecamente perversi e iniqui, il loro uso obbedisce alla logica satanica della viltà e del disprezzo. Non possono essere fabbricate né vendute né disseminate senza ledere i principi del diritto, della giustizia e dell’etica.

L’estensione, poi, del triste fenomeno delle popolazioni cacciate dalle loro case e dai loro campi a causa di eventi bellici e la moltiplicazione indegna di profughi e rifugiati, rende ancora più assurda questa minaccia quotidiana che incombe e sovrasta persone investite dal flagello delle guerre. È urgente, è necessario, è indispensabile, pertanto, che emergano quei sani principi morali capaci di valutare gli aspetti tecnici e operativi per poterli situare nella superiore esigenza del rispetto della dignità umana, della vita e della pace.

Siamo pienamente convinti che armi omicide siano anche le calunnie, le falsificazioni, le lettere minatorie, l’odio, la noncuranza, l’espulsione e ogni gesto diabolico che distrugge l’inviolabile dignità della persona umana che è dono squisito dello Spirito! Sono, inoltre, da rigettare tutte quelle false cortesie connesse ai ruoli e agli incarichi, mentre, in chi li esercita, rimane disattesa la ricezione del bisogno e, in non pochi casi, della persona stessa.

Dinanzi a questi eventi di distruzione e di morte, anche se “gemiamo interiormente” facendo esperienza di tribolazione e pianto, la speranza ci soccorre e ci libera da ogni paura di morte. Bisogna, però, sperimentare la continua prova umana di saper vincere in ciascuno di noi lo sdoppiamento che c’è tra l’”io virtuoso”, in cui l’uomo trova l’equilibrio, e l’”io odioso” che è causa della sua frantumazione.

Se la speranza è attesa di pace, la fede ci assicura che noi uomini non siamo “esseri estranei” ma figli di Dio, creati a sua immagine e somiglianza e destinati a condividere la risurrezione del Figlio suo Gesù che subì la morte per ridonare a tutti la vita. Il cristiano, pur vivendo il dramma quotidiano della morte, anche se è inferta dal fratello assassino, con il disfarsi fatale e irreversibile del corpo, guarda il morire come il termine della vita che segna il passaggio alla gloria della risurrezione nel Signore, “Redentore vivo”. Giobbe, pur vivendo drammaticamente la prova dolorosa che ha consumato la sua vita, spalanca, tuttavia, il cuore alla speranza e canta la sua antifona di fede: Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro (19,23-27). Per il cristiano, Gesù è il Redentore che è risurrezione e vita per chi crede e spera in Lui. Quel che consola è la sicurezza cristiana che, oltre la vita terrena, l’amore non muore, ma permane perché porta in sé il germe dell’immortalità che è la vita divina.

Il nostro cuore, inchiodato alla croce, crede fermamente che il fratello in umanità, passato dalla vita terrena all’eternità, rimane accanto a noi, anzi, è più presente che mai nel mondo invisibile e reale della comunione dei santi. Il nostro spirito, crocifisso al dolore, penetra nel Regno dell’Amore ineffabile e scopre che Dio è il Padre di tutti che opera attraverso interventi arcani: Mistero imperscrutabile, inaccessibile, drammatico, ma profondamente consolante. Soltanto l’amore della fede è capace di interpretare Dio! Questa fede d’amore diventa il linguaggio d’ogni creatura e ci fa intravvedere, come Mosè sul Sinai, il fuoco d’amore che brucia e non consuma in mezzo ai rovi spinosi della sofferenza umana.

Sant’Agostino così descrive la vita della gloria: «Là riposeremo e vedremo, vedremo e ameremo, ameremo e loderemo» (La città di Dio, XXII, 3, 5). Quello che sulla terra si attua sacramentalmente nella divina Liturgia, in cielo è già piena realtà. Quello che in terra si contempla mediante la fede, in cielo si vive nella beata visione e nel canto dell’Amen e dell’Alleluia. Amen, dice ancora Agostino, che è contemplazione della Trinità, Alleluia che ne è il godimento. Amen, premio di fede, Alleluia, premio d’amore. Così, il tempo e lo spazio, nati dal Fiat creativo, alla fine dei tempi saranno immersi nell’Amen glorificativo dell’Alleluia. Allora, il grido lacerato dell’umanità ferita e mortale si trasformerà in canto di gioia perché Dio sarà tutto in tutti.

La vocazione dell’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, redento dal sangue di Cristo e divinizzato dal Soffio dello Spirito, ha come fine il fascino di creare il paradiso in terra attraverso la concorde armonia della pace universale, anticipando e pregustando il Paradiso dell’eternità beata.

Giuseppe Liberto

BELLEZZA COME VISIBILITA’ DEL MISTERO

La bellezza nasce, fiorisce e fruttifica nell’alveo più recondito e fecondo dell’essere umano. I mistici comprendono bene che la bellezza è inseparabile dalla natura umana perché l’essere creato è bellezza mentre la sua negazione è radice di nichilismo che porta illusione, delusione e morte. Bene e male, Abele e Caino convivono in ogni persona umana. Caino e il male sono i distruttori dell’armonia universale e i responsabili di una Babele di voci dissonanti e discordanti. Pentecoste ha bisogno di cultura non di vana e vacua imbecillità. Ciò che è buono, ordinato e positivo nell’agire quotidiano è in perenne armonia con l’arte della Bellezza che distrugge le maschere delle fangose bassezze.

Nell’uomo nulla è più libero e inafferrabile del bello! Chi può limitarne la vita e la libertà? Soltanto la bruttezza stronca il germogliare e il rifiorire d’ogni bellezza. Il bello e il buono convivono con la libertà perché si nutrono della verità. Creatività nella libertà della verità è soltanto della persona umana creata a immagine e somiglianza di Dio Bellezza e configurata in Cristo Logos-Sarx e Fos-Melos per lo SpiritoLa vita, senza la Bellezza, si deforma in un lento dissolversi verso il vuoto del nulla.Immergersi nella contemplazione della bellezza è la via per incontrare Dio, Bellezza eterna e assoluta. L’artista, per creare bellezza deve avere il dono di generare nello Spirito.

Piace sempre ricordare Sant’Agostino quando nel suo libro Le Confessioni invoca: “Tardi ti ho amato, Bellezza tanto antica e sempre nuova; tardi ti ho amato” (Libro X, 27). San Basilio Magno affermava che “per natura gli uomini desiderano il bello”(Regular fusius tractatae, PG 31, 912 A). L’uomo senza bellezza è un inquieto vagabondo in preda al nichilismo. L’assenza della bellezza, infatti, produce umanità volgare, selvaggia e violenta. Dalla tradizione costruttiva del bello non si può passare alla trasgressione distruttiva del brutto. Dalla nobile eufonia non si può passare alla pandemica schizzofonia. Nell’afasia del pensiero musicale, l’artista deve vivere impaziente l’attesa del silenzio creativo che è il grembo dove germoglia e fruttifica il sublime canto d’amore dell’Eterno Infinito Creatore.

Pavel Evdokimov, nel suo libro Teologia della Bellezza, racconta che Vladimir, principe di Kiev, espresse il desiderio di volere una sorta di religione sia per sé come anche per il popolo. Nel ricercare, non sapendo quale fosse quella giusta, invio dei diplomatici nei luoghi dove fiorivano le varie religioni. Un giorno questi emissari trovandosi a Costantinopoli, entrando in Santa Sofia, rimasero colpiti ed estasiati dallo splendore di quella sublime basilica. Quando tornarono a Kiev, con emozione ricolma di stupore, raccontarono al principe l’esperienza di quella visione paradisiaca: “Noi non sapevamo se eravamo in cielo o sulla terra, perché sulla terra non si trovava simile bellezza… Perciò non sappiamo cosa dire, ma di una sola cosa siamo certi: là Dio dimora con gli uomini” (p. 36). Così, il principe Vladimir decise di scegliere la religione cristiana.

Ogni bellezza naturale e artistica apre sempre la strada per l’incontro con il divino. L’uomo, infatti, creato da Dio ha ricevuto il dono non solo di partecipare alla sua Bellezza ma anche la capacità di rivelare, attraverso le sue opere artistiche, la somiglianza di quella stessa Bellezza divina (cf Gregorio di Nissa, De opificio hominis, 18).

Il gusto della magnifica esperienza estetica ed estatica, tra ascolto e visionefu percepito anche dal teologo tedesco Romano Guardini in una sua memorabile visita alla Basilica Cattedrale di Monreale quando nel 1929 partecipò alle celebrazioni della Settimana Santa. Nell’appassionata descrizione contenuta nel suo diario di viaggio, annotò con meraviglia il modo in cui il Vescovo, i presbiteri e tutto il popolo di Dio partecipavano alle celebrazioni liturgiche. All’interno della bellezza architettonica, il fascino della visione di fede dato dalle icone musive si armonizzava con l’ascolto della Liturgia in canto.

Il teologo tedesco racconta così quell’esperienza: “La giornata era piovosa. Quando arrivammo – era il Giovedì Santo – la Messa solenne era già oltre la consacrazione. L’arcivescovo per la benedizione degli olii sacri stava seduto su un posto elevato sotto l’arco trionfale del coro. L’ampio spazio era affollato. Ovunque le persone stavano sedute sulle loro sedie, e silenziose guardavano… Oro su tutte le pareti. Figure sopra figure in tutte le volte e in tutte le arcate fuoriuscivano dallo sfondo aureo come da un cosmo. Dall’oro irrompevano ovunque colori che hanno in sé qualcosa di radioso. Tuttavia, la luce era attutita. L’oro dormiva, e tutti i colori dormivano. Si vedeva che c’erano e attendevano…Quando portarono gli olii sacri alla sagrestia, mentre la processione, accompagnata dall’insistente melodia dell’antico inno, si snodava attraverso quella folla di figure del duomo, questo si rianimò. Le sue forme si mossero. Entrando in relazione con le persone che avanzavano con solennità, nello sfiorarsi delle vesti e dei colori alle pareti e nelle arcate, gli spazi si misero in movimento. Gli spazi vennero incontro alle orecchie tese in ascolto e agli occhi in contemplazione…Tutti vivevano nello sguardo, tutti erano protesi a contemplare. Allora mi divenne chiaro qual è il fondamento di una vera pietà liturgica: la capacità di cogliere il ”santo” nell’immagine e nel suo dinamismo” (R. Guardini, Scritti filosofici, vol. II, pp. 169-170).

Nella divina Liturgia, la bellezza sonora è l’espressione sublime della preghiera liturgica in cui si compie l’opera della nostra redenzione. Bellezza e Bontà sono a servizio del Mistero celebrato. Canto e musica sono segni che dilatano quanto la celebrazione ha in sé stessa. La bellezza liturgica è “sacramento” che svela e rivela il Mistero posto nelle nostre mani. Anche il canto di una breve antifona o di un semplice ritornello dev’essere condito di nobile semplicità e sapienza orante. La poetica del silenzio diventa così grembo fecondo in cui la Parola risuona e s’incarna, viene accolta, adorata e mangiata. Noi così veniamo trasformati nella stessa sostanza divina di cui ci nutriamo: ed è già concordia teandrica. La Parola che sgorga dal silenzio trinitario diventa parola umana che con il canto liturgico celebra l’unione sponsale con Dio: ed è già dialogo trasfigurante e divinizzante. Il fondamento del canto e della musica per la Liturgia è già nella stessa Liturgia.

Sant’Ambrogio, pastore, teologo, innografo e mistagogo, afferma che nel canto dei salmi la conoscenza della verità gareggia con la bellezza della grazia e la dolcezza del Salterio in canto diventa regola di vita: “Hoc est dulce psalterium, ubi canora est disciplina vivendi (Expl. in Ps. XLVIII, 7).Per i pastori della Chiesa di Cristo, per i credenti e per gli artisti, la Liturgia è regola di vita che lega al mistero di Cristo con vincolo nuziale. La Liturgia, dunque, dev’essere contemplata come “laboratorio artistico” di divinizzazione in cui l’amore di Dio si esprime con i linguaggi della bellezza, della verità e della bontà.

Giuseppe Liberto

ARTE COME PERCEZIONE CREATIVA DEL MISTERO

Riascoltando l’incantevole brano di Wagner intitolato Siegfried Jdyll rimango sempre più affascinato! L’idilliodi Sigfrido è struggente nella sua pura tenerezza, estatico nel suo modulare trasognato, intenso nella sua profondità cromatica, elevato nella sua architettura espressiva di trama musicale quasi inestricabile. Il solo ascolto è già incarnazione sonora di eventi, personaggi e sentimenti!

Non basta imparare le regole del combinar le note: bisogna conoscere bene tutta la musica!

Non basta sapere usare il metronomo: bisogna saper captare la musica del ritmo!

Non basta avere in mano il diapason: bisogna saper percepire la musica del suono!
Non basta l’ascolto dei suoni e dei ritmi: bisogna che essi diventino arte per essere musica.
Soltanto allora avviene il miracolo del ridonare la bellezza sonora in cui ogni rapporto tra vita e arte si trasfigura in poesia e canto.

Fare arte è percepire l’invisibile Mistero. L’arte si misura sempre con l’ineffabile Mistero, non è foto-copia del mondo reale. L’artista opera arte per urgenza interiore di verità e per palpitanti suggestioni di quel cuore che esplode quando vuole avventurarsi nell’infinita molteplicità delle sue impressioni ed espressioni.

L’arte vera non è imitazione di modelli secondo “canoni assoluti” di bellezza, ma ascolto di sentimenti che aprono sentieri inesplorati in quel mistico giardino di meraviglie che incantano. L’arte deve fare sempre passi in avanti per non morire nel “già detto”. L’arte vera è processo di creatività, è trasfigurazione di nuove luci, di variegati colori, di suoni inediti e ammalianti. Il vero artista, pur rimanendo fedele alle esigenze della tecnica, deve possedere l’audacia di creare il nuovo, altrimenti non supererà mai quella sorta di “pio archeologismo” che blocca ogni creatività della ragione filtrata dal cuore.

L’arte è soglia che nasconde e rivela, vela l’ineffabile e svela l’invisibile. L’arte è tutta simbolica: mette insieme realtà di ordine diverso per poi sconnetterle in un continuo divenire tra equilibrio e lacerazione, tra concordanza e dissonanza di luci e di penombre, di silenzi e di suoni. L’arte è il grembo fecondo in cui l’amata bellezza si genera e si rigenera. La bellezza non conosce la separazione cartesiana tra spirito e corpo perché tutto passa attraverso il corpo mentre raggiunge lo spirito. La bellezza, come l’amore, è arte che, quando raggiunge il cuore, lo fa esplodere!

Il processo di scrittura, sia letteraria sia musicale, ha lo stesso principio di comunicazione e di rivelazione del pensiero. Comporre, eseguire e interpretare non significa scrivere, suonare o cantare soltanto note, anche se scritte o eseguite in modo tecnicamente perfetto. Il compositore o l’interprete deve creare e ricreare musica vera nella “temporalità sonora”, altrimenti, invece di essere eccellente musicista, rischia di apparire mediocre musicante. Ben sappiamo che il travaglio della ricerca artistica spinge sempre verso inedite luci verbo-melodiche che sono canto ed enigma: canto per il cielo ed enigma per la terra, attraverso il fuoco creativo della passione che brucia e non consuma, come il roveto ardente sul monte Sinai. L’informe è costantemente in cerca della forma così come, un tempo, le nebulose sarebbero diventate soli, stelle, lune e terre.

Ogni composizione artistica è creazione e rischio perché è un donarsi con tutte le proprie forze senza frenare gli slanci creativi che si agitano all’interno di se stessi e che portano verso regioni ancora vergini della pura arte. Soltanto così si spicca il volo verso architetture semplici o complesse che sono danze in dissonanze, anche se le orecchie sorde, mal preparate o impigrite, sono incapaci di riconoscere le armonie del domani.

Certa mentalità sociale, che non lascia posto al nuovo, fa di tutto per abbattere il profeta e annientare la sua arte, al fine di integrarlo nel giro disarmonico della sciatta consuetudine. Il vero profeta è scomodo perché trasmette inquietudini di ricerca, mette in luce i luoghi comuni e le false certezze. Essendo un anticonformista, rifiuta la menzogna, lotta e persevera per annunziare la verità. Se l’arte ha una storia luminosa e continua a vivere nel tempo, è perché non si ostina a percorrere sentieri già battuti. La profezia artistica è la vita e la fecondità di tutte le vere arti.

Oggi, la comunità umana è in crisi perché non trova la forza di alzare i toni culturali per andare avanti profeticamente. Ritengo che l’origine di tutto questo abbia tre motivi: imbecillitas mentis, superbia cordis e pigritia voluntatis. Questi tre atteggiamenti, all’interno di quella diabolica smania mercantile, annullano ogni autentico e fecondo lavoro artistico. All’interno della prigione dell’arroganza prepotente dei potenti, il profeta d’arte è condannato a morte, pur rimanendo vivo nella sua libertà di coscienza. La storia ci tramanda che i profeti vengono sempre esiliati e rinchiusi nel martirio della loro testimonianza: martiri di un’inutile utopia? No, martiri perché l’arte della risurrezione l’hanno capita soltanto loro. Essi, infatti, sono segno di un altro mondo che non si può fingere di ignorare proprio a causa della loro testimonianza.

La creazione artistica del canto e della musica per la liturgia non può essere dunque sfruttamento mercificato di un talento ma responsabilità di un’ascesi, così come l’ispirazione non ha come fine il donare vita alla tecnica, ma è la tecnica che offre un corpo vivo all’ispirazione. Tutto il travaglio artistico somiglia al lavoro ascetico dei mistici e dei profeti, compresi i momenti drammatici della “notte oscura”. Al di là delle tecniche, degli stili e delle forme, i veri artisti, sanno donare vita alla misteriosa realtà che possiedono interiormente. Mi piace paragonare l’artista al mitico pellicano che offre le proprie viscere come cibo per i suoi piccoli. E, allora, si esortino i mistici e i profeti a non spegnere il sublime canto spirituale del divino Logos Sarx rivelato e celebrato nella divina Liturgia!

Sant’Ambrogio, vivendo il Mistero dell’Epifania, cantava: “Cristo, ti sei mostrato a me faccia a faccia, nei tuoi Sacramenti t’incontro” (Apol. prof. David, XII, 58). Passato, presente e futuro si armonizzano nella Liturgia, dove il Mistero soprannaturale della Redenzione s’incarna nel mistero naturale della creazione abbracciando tutta la storia: Cristus heri, hodie et in saecula! Nella Santa Liturgia, il linguaggio della bellezza sonora deve essere epifania del mistero divino donato, accolto e celebrato. Il mistero cui serve la musica liturgica è il mistero dello “Spirito e della Verità” (cf Gv 4,23).

Giuseppe Liberto

AVVENTURA PROFETICA DELL’ARTE

“L’arte non ripete le cose visibili, – afferma il geniale pittore Paul Klee – ma rende visibile ciò che non lo è”. Esprimere è portare alla luce ciò che è nascosto, misterioso, ineffabile. L’artista crea per esigenze interiori di verità, per suggestioni di un cuore che esplode, per avventurarsi nell’infinita molteplicità delle sue impressioni-espressioni. L’arte non è imitazione di modelli secondo canoni assoluti di bellezza da ricopiare o riciclare. L’arte è apertura verso una verità che è sempre in divenire, che è sempre da inventare e da riscoprire. L’arte è ascolto di sentimenti che aprono sentieri inesplorati nel mistico bosco delle mille idee verso una verità che fa sempre più passi in avanti per non morire nel già detto e nel già scritto. L’arte è processo di sublime creatività e trasfigurazione, con luci nuove, di variegati colori, di suoni inediti. Essa è soglia che nasconde e che, allo stesso tempo, rivela: invisibile da svelare, rivelazione da velare. L’arte è tutta simbolica: mette insieme realtà di ordine diverso per poi sconnetterle in un continuo divenire tra equilibrio e lacerazione, tra concordanza e dissonanza, tra luce e ombra, tra suono e silenzio. L’arte è grembo creatore in cui si genera e si rigenera la verità. Essa, come la speranza, è ricerca di quel che sarà e che si misura con l’invisibile e ineffabile Mistero.

Ogni forma di creatività non è mai un fatto individuale, essa ha bisogno di un dia – logos. Ogni creatività musicale implica un dialogo che è capacità di donare e di accogliere, di parlare e di ascoltare, di agire e di reagire. Questa capacità di percezione dialogica la troviamo soprattutto nell’ambito dell’arte musicale. Gli specialisti affermano che l’antica querelle tra Bach e Haendel, il primo fautore e l’altro avverso all’introduzione di una scala musicale regolarmente temperata, è sempre un fatto attuale in molteplici variazioni.

Nella storia della musica, dal tardo medioevo sino all’inizio del ‘900, cinque sono state le grandi “rivoluzioni” di contenuto formale: quella di Monteverdi, quella di Gluch, quella di Beethoven, quella di Wagner e, a suo modo, quella dell’impressionismo francese. Queste “riedificazioni sonore” ex novo o si sono imposte subito o hanno atteso del tempo per essere recepite. Monteverdi, subito dopo la morte, era considerato già princeps musicae. Beethoven, invece, un pazzo, ma, dopo un decennio dalla morte, godeva l’entusiasmo di tutta l’Europa musicale. Quasi identico è il caso Wagner.

L’esperienza storica ci dice che in Italia, per quasi duecento anni, il pensiero musicale si era fermato. Nell’‘800, per esempio, quando in Germania si “inventava” musica moderna con Beethoven, Wagner, Schonberg… l’Italia aveva Rossini, Bellini, Verdi… musicisti eccellenti, con opere di altissimo livello e universale comprensione, ma, in certo senso, non “in evoluzione”. La musica di Monteverdi non è meno progredita di quella di Debussy. Anche nell’arte letteraria, a parte Leopardi, si avverte la stessa cosa. Van Gogh, nei suoi dipinti, ha lampi di genio straordinari. I grandi maestri insegnano che nella creatività musicale, le “regole” sono fatte per essere “violate”. E’ certo che se un artista non è creativo, non può esserlo studiando solo “regole compositive”.

Nel dopo guerra, l’esperienza della musica contemporanea, detta “seriale”, è dominata dall’ideale della perfetta unità; tutti gli elementi della musica, infatti, sono attratti da una sorta di forza di coesione. Nei suoi lavori, Webern è maestro di quest’arte compositiva. Lo studio creativo dei compositori d’avanguardia ci spinge così a riflettere sulla questione dell’obbedire o del disobbedire alle “regole d’armonia” e ai “canoni compositivi”. E’ chiaro che obbedienza o disobbedienza è sempre in rapporto all’ideale di ordinato equilibrio dello stile e delle forme musicali. Beethoven, nel momento creativo, “disobbediva”, a suo modo e da par suo, al codice compositivo classico rendendolo così più vivo ed efficace.

Disobbedienza e creatività, dunque, non sono per un’arte banale e consueta, ripetitiva e scopiazzata da modelli secondo canoni già prefabbricati, ma per un’arte in processo di creatività che produce organismi vivi e nuovi. Si esigono però i doni del carisma, della competenza e della creatività. Rimane eloquente il commento con cui si espressero i reduci della Scala alla “prima” di Pelléas et Mélisande:“E’ diverso da tutte le altre composizioni, ma dentro c’è la musica!”. Il dramma musicale di Debussy era stato rappresentato all’Opéra Comique nel 1902. Esperienze nuove sì, ma che respirino creatività di autentica arte musicale! Un esempio di originale arte interpretativa si trova anche nel grande violinista Isaac Stern. Egli suonava Mozart in maniera insolita perché nell’esecuzione vi proiettava esperienze di natura romantica. Sembrerebbero gesti di arbitrii illogici, ma in realtà erano espressioni normali e originali. Sappiamo bene che nell’arte la tecnica è fondamentale, ma solo chi la possiede può permettersi persino di “dimenticarla”. Il vero esecutore chiude gli occhi e suona! Però, solo chi padroneggia la tecnica può permettersi di astrarsene per ricreare.

 E’ cosa certa che per gli artisti il capolavoro definitivo non esiste perché esso risiede soltanto nelle sapienti mani di Dio Creatore. La speranza del capolavoro veglia nel cuore di ogni artista, donando senso ed espressività a ogni creazione che egli produce. Questa luce fa vivere l’artista nell’entusiasmo dello studio faticoso della creatività quotidiana e nella gioia di donare i frutti del proprio lavoro a chi li sa accogliere con intelligenza e apertura di cuore. E’ chiaro che il vero artista non ha la vocazione di erigere musei per custodirli, anche se questi sono preziosi custodi d’opere d’arte d’ogni tempo. L’arte è sempre infinita ed è realtà viva in divenire. L’arte, infatti, non può essere mai “conformista”, essa è paradossalmente “iconoclasta” perché nasce, cresce e fiorisce nell’alveo fecondo della libertà e della novità, attraverso l’intelligenza filtrata dal cuore e all’interno del fascino e del dramma della vita.

L’arte antica, come quella moderna e contemporanea, appartiene alla storia in cui si vive ogni giorno. Il nuovo assoluto coincide con l’immutabile eterno. Per essere nuovi occorre rinascere ogni giorno, iniziare tutto da capo senza indugi e senza stanchezze, senza sentirsi mai appagati di ciò che si è conquistato. Ben sappiamo che non esiste un artista o un’opera d’arte immortale, sarebbe idolatria o paganesimo. L’artista autoesaltato in forma idolatrica, quasi vitello d’oro attorno al quale si danza e ci s’inebria, scombina tutti quei rapporti che intessono dialoghi fecondi e sereni, che arricchiscono e nobilitano quelli che lavorano con fatica e in entusiasmo per uno stesso fine. L’artista idolatra non usa un’arte che salva ma un’arte che distrugge. Quest’ultima è arte che celebra un anonimo dio “sacro” catalogato e ben definito come opera d’arte preziosa da museo nel vuoto di certa religiosità sociologica istituzionalizzata.

La sublime arte liturgica che salva è la nobile bellezza che celebra Dio, il “Santo” vivo e vero, annunziato da Cristo e da noi creduto e appassionatamente amato come Lui ha amato noi e continua ad amarci. L’artista credente celebra il Dio di Cristo con la sublime novità dell’arte santa dell’Agape. Il Beato Angelico dipingeva contemplando il Mistero. San Tommaso d’Aquino afferma, infatti, che “contemplare è trasmettere agli altri ciò che si è contemplato”. Nell’arte dunque bisogna camminare su questa via per donare frutti autentici di profetica bellezza rivolta sempre e soltanto verso quel fine confermato dal Concilio Vaticano II e che Bach soleva scriveva su ogni suo spartito: Soli Deo Gloria! Dalla contemplazione di quella Gloria a Dio sgorga la vera arte santa che celebra la divina Liturgia in cui il Padre nello Spirito si rivela e si dona nel Figlio per redimere l’umanità intera: ed è già cristiana divinizzazione.

Giuseppe Liberto