È VENUTO, VIENE, VERRÀ

L’Avvento, dal latino adventus, significa “venuta” cioè arrivo, ma con sfumature di presenza, detta in greco parousìa, la dimensione escatologica di tutta la vita cristiana. Prima di essere preparazione al Natale del Signore, l’Avvento serve a ricordare la parusia. Il numero di queste domeniche sono cinque nel Sacramentario gelasiano e quattro in quello gregoriano. Nella liturgia romana, l’Avvento, oltre l’aspetto ascetico-penitenziale, ha due significati: la memoria dell’ultima venuta del Salvatore e la preparazione al Natale del Signore che apre il tempo all’Epifania. Oltre ai due significati, l’Avvento ha altresì una doppia caratteristica: è tempo di preparazione al Natale ma è anche tempo in cui lo spirito, attraverso tale memoria, viene guidato verso l’attesa della seconda venuta del Cristo alla fine dei tempi. Nella prima parte delle quattro domeniche si avverte, con fremiti escatologici, un’intonazione dell’attesa dell’incontro col Signore; nelle altre due, a partire dal 17 dicembre, il canto è intonato sull’attesa della nascita del Salvatore. 

Ogni domenica offre tre letture evangeliche che danno il tema per la mistagogia dell’omelia e dei testi in canto: la prima lettura è profetica, la seconda apostolica, il vangelo è preso da Matteo nell’anno A, da Marco nell’anno B, completato da Luca nell’anno C e da Giovanni. I temi delle domeniche volgono lo sguardo meditativo e contemplativo su quattro aspetti: la prima domenica punta lo sguardo sulla vigilanza nell’attesa del Signore, nella seconda c’è il forte grido di Giovanni Battista che richiama all’urgenza della conversione, la terza ci offre la testimonianza del Precursore, la quarta narra l’annunzio della nascita di Gesù, il Messia. Questa ricchezza dottrinale e spirituale è anche contenuta nella Liturgia delle Ore.

Nella Messa della I domenica d’Avvento, il primo prefazio canta: «Al suo primo avvento nell’umiltà della nostra natura umana egli portò a compimento la promessa antica e ci aprì la via dell’eterna salvezza. Verrà di nuovo nello splendore della gloria, e ci chiamerà a possedere il regno promesso che ora osiamo sperare vigilanti nell’attesa». Dal canto del Prefazio sgorga il canto del Trisaghion. Anche nella Liturgia delle Ore la prima lettura patristica è tratta dalle Catechesi di san Cirillo di Gerusalemme che spiega in sublime mistagogia le due venute di Cristo (15,1-3).

L’Avvento è attesa vigilante che fa volgere lo sguardo di speranza verso il nostro Dio misericordioso. L’antifona d’ingresso della Messa, col Salmo 24 (25), ci fa cantare: «A te, Signore, elevo l’anima mia, Dio mio, in te confido: che io non sia confuso. Chiunque spera in te non resti deluso». Per tutte e tre le domeniche degli anni A B C, il Canto al Vangelo è sempre lo stesso: «Mostraci, Signore, la tua misericordia e donaci la tua salvezza». Anche l’antifona per il canto di comunione ha lo stesso tema del “vegliare, stare attenti e pregare”. Il tema è attinto dai tre vangeli di Matteo, Marco e Luca.

Nella Liturgia delle Ore, le antifone cantano più volte gli avverbi della sorpresa: «Ecco, Dio viene»;«Rallegrati, esulta, santa città di Dio: a te viene il tuo Re». E il Signore risponde: «Ecco, vengo presto, e sarò il vostro premio».

Celebrando la Liturgia dell’Avvento, il cristiano condivide la speranza di Isaia che invocava l’evento tanto sospirato dell’incontro con Dio: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi!» (63,19). La spiritualità dell’Avvento non può basarsi su un Dio che ancora non ha inviato nel mondo il Figlio suo. Per il cristiano, il Messia si è già incarnato nel grembo verginale di Maria e si è fatto uomo. Con la sua morte e risurrezione, abbiamo ottenuto la salvezza totale e il dono della vita eterna che raggiungeremo quando, alla fine dei tempi, Cristo ritornerà nella gloria e consegnerà al Padre i suoi figli salvati.

Nell’attesa dell’ultimo giorno e a sostegno del nostro cammino verso la Terra promessa, Gesù ci ha lasciato il suo Corpo da mangiare e il suo Sangue da bere. Il nutrimento del suo Corpo e del suo Sangue fa vivere il cristiano in uno stato di ardente tensione che lo prepara all’incontro con il Signore che è venuto, verrà e continua la sua misteriosa presenza nel venire-restare dolcissimo all’interno della sua Chiesa sacramentale.

Non possiamo celebrare l’Avvento senza l’Eucaristia che è la pregustazione del Paradiso. Non possiamo vivere il presente avendo soltanto la visione della caducità del mondo e pensando solo alla “fine” come l’annientamento di tutto. Questa mancata speranza immerge l’uomo in uno stato di disperazione e, abbassando i livelli dell’esistenza, cade nel complesso d’inutilità di ogni cosa votata al fallimento e alla distruzione. L’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio sta al centro della creazione perché tutto ciò che lo circonda è stato creato per lui. Soltanto il peccato frantuma ogni cosa. L’Incarnazione, la Croce e Risurrezione sono descritte da san Paolo con la parola “ricapitolazione” di tutto il creato. L’Avvento di Dio nella storia dell’Antico e del Nuovo Testamento è intervento di “restaurazione” di tutto ciò che esiste.

La Liturgia della Chiesa ha la funzione di attualizzare per l’umanità il gesto redentore di Cristo. È questa la funzione essenziale della celebrazione eucaristica, “culmine e fonte” della vita cristiana. L’assemblea liturgica che celebra la Divina Eucaristia è chiamata, per Cristo, con Cristo e in Cristo, a elevare l’uomo per la ri-creazione di tutto l’universo. La Liturgia della Chiesa ha la funzione di attualizzare per l’umanità il gesto redentore di Cristo. L’unico nostro Dio, Trinità Santissima, è il Creatore, il Redentore e il Ri-creatore.

Se l’Avvento d’Israele si trova tra il peccato originale e la venuta del Messia, l’Avvento del cristiano si situa tra la sua venuta storica e l’attesa del suo secondo avvento. La fede d’Israele e quella del cristiano s’incontrano, ciascuna a suo modo, nel vivere le due speranze con diversa intensità. Memoria, Presenza e Attesa di Cristo sono cantate dall’Apocalisse come: «Colui che è, che era e che viene» (1,8). Da qui il canto struggente della Chiesa con l’invocazione Maranatha!: «Vieni, Signore Gesù!».

Giuseppe Liberto

AL CULMINE DEI TEMPI

Nelle ultime raccomandazioni, la Lettera agli Ebrei esorta a ricordarsi dei capi che hanno annunziato la verità. Se questi cambiano o scompaiono, solo Cristo rimane in eterno: “Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre! Cristo è il Signore del tempo: non Lui è situato in rapporto alla storia, afferma Cullmann, ma è la storia misurata in rapporto a lui. Così, passato, presente e futuro sono segnati da Gesù.

La tradizione cristiana più antica ha amato parlare di tre venute del Signore: l’umile incarnazione nel grembo di Maria; la sua presenza sacramentale nella celebrazione eucaristica e il glorioso ritorno nella Parusia.

– La prima venuta di Gesù era la risposta alla bimillenaria attesa di Israele. Se è vero che ogni uomo e ogni popolo intesse la sua vita di speranza, il popolo d’Israele è nato esclusivamente come incarnazione di quella speranza e non ha senso che per essa. Tutto “l’Antico Testamento – scrive Gelin – è il “libretto” di un itinerario spirituale che è storia di una vocazione e l’equivalente di un catecumenato. I temi del cammino e della via vi sono centrali. Lo slancio, la tensione, l’apertura sull’avvenire lo caratterizzano”. Basta rimandare alla Novena di Natale che ci fa cantare quel sublime florilegio dei sospiri profetici. Quando Gesù si fa carne della nostra umana natura, la tensione giunge al vertice.

Ricordiamo Giovanni Battista, Simeone, Maria. Con loro siamo già alla pienezza dei tempi quando Dio mandò il Figlio suo (cf Gal 4, 4; Ef  1, 10; Mc 1, 15).

Quello che in Israele è cosciente attesa, negli altri popoli è inconscia aspirazione. Cristo appare nella notte del mondo, brilla nelle tenebre dell’umanità, Egli è, infatti, la luce per tutti (cf Gv 1, 5, 9) e la “luce del mondo” (Gv 8, 12). A Gerusalemme, dove questa Luce s’è accesa, convergono tutte le nazioni in un tripudio di gioia (cf Is 60, 1 ss; 9, 1 ss.).

– La seconda venuta avverrà quando Gesù, dopo avere inviato i discepoli per la missione universale, lasciata la terra, promise: “Ed ecco, io sono con voi tutti, sino alla fine del mondo” (Mt 28, 20). In questa lunga e laboriosa opera di conversione universale, il Risorto sarà il vivente e operante insieme con i suoi. La prima comunità cristiana, infatti, intuì che tale promessa si sarebbe realizzata in modo speciale nella celebrazione della divina Eucaristia. Ogni volta che i cristiani si riunivano per la fractio panis, percepivano che Cristo era con loro non soltanto come “Pane di vita” ma come primo commensale che spezzava e distribuiva questo Pane così come aveva fatto nell’Ultima Cena, nell’incontro con i discepoli di Emmaus e sul lago di Tiberiade.

L’incontro sacramentale con Gesù costituisce sempre la gioia della comunità celebrante (cf At 2, 46) che si esprime con la gioia del canto: “Siate ricolmi dello Spirito, intrattenetevi tra voi con salmi, inni, canti ispirati, cantando e inneggiando al Signore con il vostro cuore” (Ef  5, 19).Questo è preludio anche al ritorno definitivo di Cristo; Egli, che allora sarà la meta, ora è la via e il compagno di viaggio.

– Alla fine dei tempi, Cristo tornerà perché la sua venuta segnerà il termine dell’universo temporale e l’inizio del mondo nuovo: “E vidi un cielo nuovo e una terra nuova” annunzia Giovanni nell’Apocalisse descrivendo il nuovo fidanzamento di Gerusalemme con il suo Dio, nel giubilo e nella gioia (cf Ap 21, 1-2). Quanto fu umile il natale terreno di Gesù, altrettanto sarà trionfale il suo ritorno celeste alla fine dei tempi. I cristiani sono “tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione” (2 Tim 4, 8). L’attesa della Parusia ne definisce l’atteggiamento fondamentale che è appunto l’attesa. Questa è simile alle dieci vergini che attendono con la lampada della vigilanza ben ravvivata che è la fede amorosa e corrono incontro allo Sposo. La disposizione del vero cristiano è atteggiamento “verginale” perché passa tra le belle realtà temporali senza perdere di vista quelle eterne.

La Chiesa è la Sposa di Cristo che grida appassionatamente: “Vieni, Signore Gesù”. Con questo grido d’amore, che è tutta la vita della Chiesa terrena, si chiude la Rivelazione (cf Ap 22, 17-20). *

Giuseppe Liberto

*Rielaborazione del testo di A. Rizzi. Cf. Bollettino ceciliano, Novembre-Dicembre 1963

CRISTO RE VERRÀ NELLA GLORIA

La splendida visione di gloria del giudizio universale chiude l’anno liturgico. L’evangelista Matteo lo narra con il simbolo del Figlio dell’uomo assiso sul trono regale della sua gloria. Cristo è il Giudice Re che alla fine dei tempi giudicherà tutte le genti e come pastore separerà le pecore dai capri. Questo genere letterario apocalittico indica il comportamento di un modo di vivere chechiede di fare agli altri quello che Gesù ha compiuto per primo. Egli è il giudice che va in cerca della pecorella smarrita, cura quella ferita, dona forza a quella debole. Gli uomini non saranno giudicati soltanto su quello che hanno pensato o detto di buono,ma soprattutto su quello che hanno compiuto di bene verso il prossimo. Il giudizio fatto dal Re della gloria si baserà unicamente sull’amore verso i fratelli più umili chiamati da Gesù poveri e piccoli. 

In Matteo, la corrispondenza tra “piccolo” e “discepolo” è evidente nella conclusione del discorso missionario: «Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa» (Mt 10, 42). Non tutti hanno conosciuto Gesù, ma per tutti c’è sempre una via per incontrarloda discepoli. La fede, scrive san Matteo, non è sapere soltanto una verità conosciuta per aderirvi, è anche questo, ma soprattutto significa vivere la comunione d’amore con Dio per Cristo nello Spirito. Non basta dunque parlare d’amore, è necessario vivere l’amore come Cristo. La cultura della carità è la caratteristica di ogni fede religiosa. Amare i “più piccoli”, i bisognosi, gli affamati, gli assetati, i forestieri, gli ignudi, i carcerati, che sono Cristo stesso (cf Mt 35-36), significa rendere un servizio a Gesùche ha offerto la sua vita per tutti. La sua vita umana è la norma dell’agire di ogni uomo. Egli è il “Signore”, “il Re”, il “buon Pastore”, il “Giudice”. Egli è l’immagine in cui gli uomini incontrano il Padre suo e hanno accesso a lui (cf Rm 8,29). Solo il credente configurato a Cristo è chiamato a «entrare nella gioia del suo Signore» (Mt 25,21-23). Quando nel giudizio dirà: «Venite, benedetti del Padre mio», vuole dirci che saremo accolti nel Regno del Padre suo.

La Genesi ci narra che Dio, dopo aver creato l’uomo e la donna, li benedisse rendendoli partecipi della sua vita e della sua felicità. La vita terrena è provvisoria e limitata, la vita eterna è partecipazione alla vita divina senza fine che è fuori del tempo e della storia. Nella lettera ai Romani, san Paolo scrive che: «Nel giorno del giudizio Dio renderà a ciascuno secondo le sue opere: la vita eterna a coloro che, perseverando nelle opere di bene, cercano gloria, onore, incorruttibilità; ira e sdegno contro coloro che, per ribellione, disobbediscono alla verità e obbediscono all’ingiustizia…Tribolazione e angoscia su ogni uomo che opera il male» (Rm 2,6-10). La premiazione, al pari della condanna, è data nei termini dell’Antico Testamento, dove i “benedetti” erano gli amici di Jahve, invece i “maledetti” erano i trasgressori della legge (cf Dt 28). La frase che più spaventa è la metafora del fuocoeterno che ha un’indefinibile durata dove la figura di un Dio giudice contrasta con quella di un Dio padre, amico, sposo: masappiamo che l’aldilà rimane sempre avvolto nel mistero.

Celebrare Cristo Re è contemplare nel desiderio il mistero del destino ultimo che ci attende e che ci sollecita a realizzare quotidianamente il suo progetto di salvezza. La ragione ultima per essere ammessi o rifiutati al Banchetto del Regno è l’amore donato con la misericordia praticata. Il titolo di Re applicato a Cristo ha un significato diverso da quello transeunte umano che indica mortalità e limitatezza. Il titolo di Re dato a Gesù lo troviamo nei vangeli dell’infanzia. Matteo, infatti, racconta che i Magi, partiti dalle loro terre, si recarono a Betlemme per andare ad adorare il Messia. Quando entra in scena Erode, si parla non solo di Messia ma anche di Re dei giudei (Mt 2,2). Dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci, la folla vuole rapire Gesù per farlo re, ma egli, da solo, si ritirò sul monte (cf Gv 6,15).

Il ruolo messianico, di fronte alle autorità civili e al popolo, avevaallora un significato strettamente politico, lo stesso carattere cheappare nel processo quando Gesù si trova dinanzi a Pilato che gli domanda: «Sei tu il re dei Giudei?» (Gv 18,33). Dopo la prima affermazione positiva: «Tu lo dici» (27,12), Gesù spiega di quale natura è il suo Regno. Lui si è incarnato in questo mondo per rendere innanzitutto testimonianza alla verità che ha la sua radice nella solidarietà tra Dio e l’uomo. La domanda di Pilato è tipica del filosofo scettico nutrito di cultura greca. Con l’indifferenza sprezzante che prova davanti a uno che pretende di conoscere la verità, chiede: «Che cos’è la verità?», e senza attendere risposta gli volta le spalle (cf Gv 18,37-38). Anche Gesù tace perché nessuno che non sia attratto dal Padre suo potrà capire che Egli è la Via che conduce alla Verità che dona la vera Vita. La Verità dunque s’incarna nella persona di Cristo commisurando in Lui la nostra identità di credenti, viandanti della Verità.

L’incomprensione da parte delle autorità giudaiche comporta il dramma di Gesù sino a raggiungere i limiti del grottesco. L’abile senso giuridico di Pilato e il suo tocco di umanità inducono il procuratore a entrare in contatto con quel misterioso personaggio volendo evitare la condanna. E, tuttavia, il tentativo non riesce. Egli compone financo l’iscrizione che fa affiggere sulla trave trasversale della croce che il condannato porterà sul luogo dell’esecuzione. La scritta in greco, latino ed ebraico è il motivo della condanna: «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei».  Da quella morte in croce esplode la Risurrezione e la Vita che inaugura la fine dei tempi. 

Se nel Credo professiamo che Gesù si è fatto uomo povero e umile, crocifisso e risorto, tutta la speranza del credente si basa sul Cristo Re glorioso che alla fine dei tempi «verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti».  Egli realizza in modo inatteso la nostra risurrezione finale. Il Regno di Dio, infatti, non è di questo mondo, ma è per questo mondo, perché è un regno di verità, di giustizia e di pace; di grazia, di libertà, di santità, di salvezza e di gloria. Soltanto i falsi messia pretendono di instaurare i loro regni con le armi e spadroneggiano incutendo timore e portando morte. Tutti i poteri che costruiscono quei regni che dominano le coscienze sono sempre strutturati sulla menzogna diabolica.

Il Cristo risorto inaugura la “fine dei tempi” e gli apostoli lo comprenderanno quando a Pentecoste saranno invasi dal Soffio e dal Fuoco dello Spirito. Il cristiano che rimane nell’amore del Risorto possiede Colui che attende nel “già e non ancora” della divina Eucaristia, sublime atto sacrificale di Gesù che realizza le nozze regali tra Dio e l’umanità. Cristo Re vuol far capire che la risurrezione nell’ultimo giorno comincia fin da ora. Alla risurrezione di Lazzaro, Gesù grida a Marta: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno» (Gv 11,25-26).Quell’“Io sono la risurrezione e la vita” è il Risorto Cristo Re. La sua regalità non vuole né giudicare né condannare, ma salvare tuttie donarci la vita eterna. Dal Commento al Cantico dei Cantici di san Gregorio di Nissa, nella Preghiera al Buon Pastore leggiamo: «Come potrei non amare te, quando tu hai tanto amato me? Mi hai amato tanto da donare la tua vita per il gregge del tuo pascolo. Non si può immaginare un amore più grande di questo. Tu hai pagato la mia salvezza con tua vita» (Cap. 2).

La Chiesa, Corpo mistico di Cristo, arriverà alla sua perfetta divinizzazione quando, nel giorno glorioso del Giudizio universale, il Re Buon Pastore verrà nella gloria a prenderci tra le sue braccia per consegnarci eternamente al Padre suo (cf 1Cor15,22-24). La Chiesa non ha alternative: o si deforma in matrigna foriera di morte o si trasfigura in Madre e Maestra di Vitasull’esempio di Cristo Re Buon Pastore.

Giuseppe Liberto

FASCINO TRA VISIONE E ASCOLTO

Spesse volte, a ben riflettere, la nostra condizione di uomini potrebbe farci paura perché ci si accorge di essere circondati da abissi. Dal soffio dell’Eterno Infinito che avvolge il creato; dall’immensità degli spazi che s’intersecano prodigiosamente nel nostro piccolo pianeta e nella nostra povera esistenza; dal silenzioso movimento del tempo che, misterioso e prezioso tiranno, protagonista degli avvenimenti passati, presenti e futuri, compone il fascino, talvolta drammatico, della nostra vita fino a farla diventare, nonostante la sua apparente brevità, una storia senza fine. E poi, da noi uomini, protagonisti di una “storia senza fine”, saturi di caducità, di sofferenze, di ansie, di fatalità, di miserie e d’impotenze, dimentichi talvolta delle realtà essenziali che nobilitano ed elevano la carne e lo spirito.

Insensibili all’invito dell’Eterno Ineffabile, gli uomini talvolta si tuffano in puerili e momentanee occupazioni, misconoscendo le grandi e fondamentali finalità della vita. Eppure, l’uomo da sempre naviga nel mondo affascinante dell’arte che, quasi sacramento divino, si rivela nell’ascolto e nella visione di quella sublime bellezza che seduce e incanta, nobilita ed eleva, attira e trasfigura.

Cos’è l’arte del bello! Platone nel suo Simposio scrive che l’uomo per salvarsi dalla morte ed essere felice deve essere altresì capace di perpetuare se stesso. Questo egli può farlo se genera attraverso la bellezza, e può attuarlo sia quando genera alla vita, sia quando armonizza la verità eterna con la bellezza che genera la vera immortalità dell’uomo. Il credente realizza bellezza per rendere gloria a Dio. In ogni sua partitura, Bach scriveva: “Soli Deo gloria”. La bellezza musicale era il mezzo per elevare a Dio la lode di gloria.   

L’arte del bello non è mai frutto del caso, ma efficace sintesi di ricerca e laboriosa opera di perfezione. Se l’esecuzione di una partitura sonora è il risultato dell’accanito esercizio della tecnica manuale, l’elaborazione spaziale si ottiene attraverso l’estenuante verifica di pratiche parziali sulle proporzioni, sulle tecniche, sui dettagli dei materiali ricondotti alla loro unitarietà finale. In effetti, per ricreare frutti di bellezza c’è sempre bisogno della fatica dell’arte. Come avviene in natura, così in arte: dopo la fatica della semina d’autunno e il silenzio creativo dell’inverno, arriva l’esplosione delle gemme di primavera che attendono il prezioso raccolto dei frutti al sole dell’estate. La natura è già essa stessa arte proseguente l’opera sua nello spirito umano.

Da ciò deriva l’amore dell’artista per la natura. L’arte, come la natura, è creatura viva, non ha nulla a che vedere con il simbolismo pedante, oscuro e pretenzioso. Lì dove non c’è vita, c’è imitazione. Ispirarsi è arte, ma imitare o scimmiottare, riciclare o scopiazzare sono segni di aridità e di miseria. L’arte è, fondamentalmente, creatività originale e personale. L’arte non è né mero simbolismo né pura tecnica ma simbiosi di simbolo e di tecnica. Infatti, grazie al suo rapporto inscindibile con la bellezza, l’arte è espressa simbolicamente.

Il mondo greco non formulò sufficientemente la distinzione tra arte e tecnica, infatti, la parola tecne significava avere abilità che consentiva all’uomo il dominio sulle cose e una capacità di operare sugli uomini stessi. In seguito, la tecne greca divenne l’ars dei latini. 

La distinzione tra “tecnica” e “arte” dev’essere ben chiara poiché “tecnica” designa abilità creativa e produttiva, “arte” implica il concetto di creatività, originalità e singolarità dell’opera creata. Si tratta di una sorta di trasfigurazione dell’oggetto “creato”. Il vero artista lavora all’interno della dimensione estetica per essere capace di ri-creare opere belle e buone. I grandi creatori d’arte di tutti i tempi sono, nel medesimo tempo e per quanto è possibile, sia artisti sia artigiani.

Evitando la tecnica fredda e impersonale, creano arte viva e vera. L’artista, nel momento in cui “incarna” l’idea nell’oggetto da creare, mentre crea, vive nella tensione tra la liberazione dalla materia e l’ansia d’infinto.

Nell’arte liturgico-musicale, la bellezza formale non è data soltanto dalla musica in sé come pura realtà artistica, non è nemmeno vano e vuoto estetismo ma senso del bello e del buono come espressione della sublimità del Mistero celebrato. Nella divina Liturgia la giusta valutazione non parte mai dall’opus musicum, anche quello, ma se quello, nella misura in cui rende visibile e interpreta le esigenze dell’Actio Ecclesiae.

Quello dei ministri per la musica liturgica deve essere quindi una sorta di pellegrinaggio profetico sulla via della bellezza. Il Primo Libro delle Cronache ci tramanda che il termine usato per indicare l’esecuzione musicale è lo stesso che definisce l’azione profetica: nb’. Musici e cantori, infatti, sono una sorta di “profeti” e la loro composizione musicale una vera e propria “ispirazione”.  Ricordiamo il profeta Eliseo che, per comunicare la Parola ispirata da Dio, aveva bisogno di musica e chiedeva: “Ora andate a prendermi un suonatore di cetra!”. Mentre il suonatore suonava il suo strumento, la mano del Signore fu sopra Eliseo” (2Re 3,15) e così il profeta proclamava la Parola del Signore. Anche i cantori per il servizio del Tempio di Dio cantavano per celebrare e lodare il Signore ed esaltarne così la potenza e tutti erano esperti maestri di canto. (cf 1Cr 25, 1- 8).

San Paolo quando afferma: “Rivestitevi dei sentimenti del Signore”, vuole istruirci che questo è cristianesimo, tutto il resto è gnosi che non passa attraverso la sensibilità, gli affetti, i sentimenti, la corporeità. Le vibrazioni della musica mettono in moto le energie dell’anima: le ridestano, le riabilitano coinvolgendo interiormente tutto l’essere. Per comunicare la fede attraverso l’arte è dunque necessario prendere, non soltanto la forma esteriore, ma anche la forza interiore. Tutto deve rivelare e comunicare quanto sta per avvenire nei gesti sacramentali perché il rapporto con il Signore non è l’idea di un Dio lontano, incomprensibile e inaccessibile ma un incontro teandrico cor ad cor che purifica e divinizza.

Giuseppe Liberto

BEATITUDINE IN BELLEZZA NEL CANTO DELL’AGAPE

«Beati coloro che ascoltano la Parola di Dio» e «Beati gli invitati alla Cena di Nozze dell’Agnello».

Nella celebrazione della Divina Liturgia, le luci in splendore che devono illuminare e riscaldare i beati che ascoltano la Parola di Dio e si nutrono del Corpo e del Sangue di Cristo sono tre: Bellezza espressiva, Sobrietà rituale, Nobiltà interpretativa. Nella celebrazione liturgica, il dia-logos teandrico è incontro d’amore sponsale tra Dio Trinità Santissima che si dona all’uomo per divinizzarlo e l’uomo che lo accoglie con l’ardore dell’amore per poterlo cantare con la bocca del cuore e testimoniare con lo stile di vita.

Pregare in canto è, dunque, conversare a cuore a cuore con Dio! Cantare è il gesto proprio di chi sa pregare amando! Sant’Agostino, inebriato dall’amore trinitario, afferma: «Cantare amantis est». La preghiera in canto è il restare cor ad cor con Dio, Trinità beata, e cantare questo sublime inno d’amore con il cuore, con la voce e con la vita: «In cantico novo fructum caritatis et unitatis» (Expl. in Ps. 149,3). Ancora con sant’Agostino, possiamo affermare che il canto della parola orante assurge a vestigium Trinitatis perché evoca il mistero del Padre che si rivela e si esprime con la Parola-Figlio, nell’afflato d’Amore dello Spirito santo.Il Padre canta il suo cantico d’Amore nel Figlio e lo Spirito lo fa risuonare nel cuore dei battezzati. All’interno di questi cuori credenti invasi dallo Spirito, la Parola si fa Canto.

In sant’Ambrogio, pastore, dottore, teologo della musica liturgica, mistagogo che induce a penetrare il Mistero con il canto della divina Liturgia, l’ineffabilità della Parola incarnata diventa inno liturgico. Dio canta il suo Verbo e lo dona. Ambrogio, invaso dallo Spirito, incarna il Verbo e lo esprime in poesia e in canto. Nell’arte celebrativa liturgica, purtroppo, esiste il terrificante pericolo di “desantificare” la Parola di Dio con espressioni canore che sanno di banalità triviale, offensiva e diseducante. Questo accade quando viene meno l’umiltà di spirito e l’ignoranza arrogante deborda il Mistero.

Il fascino della Parola di Dio, proclamata col Soffio dolce e forte dello Spirito, deve aprire la ragione con la bocca del cuore per saperla ri-dire in entusiasmo nel canto del Mistero d’Amore. La bellezza del Verbo e lo splendore della Verità esigono l’arte vera del canto nuovo. Sant’Ambrogio così afferma: «Questa è la dolcezza del Salterio: il canto regola di vita» (Expl. in Ps. 48,7). La divina Liturgia, infatti, per il cristiano è fondamentale regola di vita che lo lega al mistero di Cristo con vincolo nuziale. Essa è contemplata come “laboratorio artistico” di divinizzazione in cui la volontà d’amore di Dio si esprime con i diversi linguaggi della bellezza, della verità e della bontà.

Nella danza concorde delle quattro Costituzioni del concilio Vaticano II, la Chiesa è cantata come Sposa di Cristo Sposo. Tutta la Santa Liturgia traduce ed effettua questa ‘incarnazione” sponsale che va dal Padre per il Figlio nello Spirito e ascende nello Spirito per il Figlio alla Gloria del Padre. Il canto del Mistero è dunque sublime gesto spirituale perché lo Spirito invocato in ogni azione liturgica orante è presente e attivo.

L’arte musicale liturgica è azione simbolico-ministeriale in rapporto all’entrare vivo nella celebrazione per potervi partecipare coscientemente e pienamente. È simbolica perché è arte che “visibilizza” il Mistero evocandolo; è ministeriale, perché è a servizio della celebrazione; è mistagogica perché aiuta a introdurre l’orante nel Mistero per parteciparvi. Nell’arte liturgica, infatti, la bellezza non è l’effetto dell’arte umana che si autocompiace e, perciò, si autocelebra, atteggiamento questo di deprecabile idolatria. Nell’arte liturgica, ripeto, la bellezza è il riflesso della Gloria divina che si rivela. L’artista, dunque, deve percepire il Mistero attraverso la via estetica; per poterlo artisticamente rappresentare attraverso la via poietica.

In questo modo, canto e musica diventano rivelazione antropo-teologica che dà vita al Ritus e alle Preces, cioè ai gesti celebrativi e ai testi rituali in vista dell’operatività ministeriale.

San Paolo, istruendoci con chiarezza, così scrive: «La parola di Cristo abiti tra voi nella sua ricchezza. Con ogni sapienza istruitevi e ammonitevi a vicenda con salmi, inni e canti ispirati, con gratitudine, cantando a Dio nei vostri cuori…rendendo grazie per mezzo di lui a Dio Padre» (Col 3,16-17). L’apostolo inserisce i canti ispirati all’interno di una catechesi tipicamente battesimale, e lo fa sgorgare da quel cuore dov’è incarnata abbondantemente la Parola di Dio. Il Verbum Dei, accolto nella profondità del cuore, porta così i suoi frutti in tutti i membri della comunità attraverso l’edificazione reciproca, raggiungendo una forma particolare nel canto della preghiera come espressione di stupore e di gioia, di comunione e di pace. Il carisma del canto spirituale san Paolo lo illumina scrivendo agli Efesini: «Siate ricolmi dello Spirito intrattenendovi a vicenda con salmi, inni, canti ispirati, cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore»(Ef 5,18-19). Il “canto ispirato”, dunque, è l’espressione della risposta che la Parola di Cristo suscita nell’intimo del cuore ed è risposta ispirata perché è realizzata dallo Spirito santo; ecco perché “spirituale”, perché è lo Spirito che lo fa erompere dall’interiorità del battezzato e lo rende capace di poterlo esprimere nella “sobria ebbrezza” di un cuore ricolmo di gioia. Non sappiamo con chiarezza a quale genere musicale appartenessero gli psalmòi, gli hymnoi e gli odài. Sicuramente indicavano quelle forme vocali espressive usate allora. Potrebbe anche significare, a parer mio, la ricchezza e la varietà dei diversi generi musicali all’interno della molteplicità delle culture.

San Paolo, dunque, ci tramanda e ci ammaestra affermando che la Parola di Dio, accolta nella profondità del cuore, porta i suoi frutti in tutti i membri della comunità, attraverso l’edificazione reciproca e raggiungendo la sua forma particolare, appunto, nel canto comunitario. Questo canto non si riduce a un’espressione artistica qualsiasi, ma a quel tipico canto “spirituale” che caratterizza sia la preghiera sia la stessa comunità orante. Il termine “spirituale”, infatti, non equivale a un generico “sacrale” di tipo pagano, ma definisce la santità ed è l’esperienza dello Spirito che i battezzati hanno in dono di vivere.

Anche la parola “cuore” non va letta in senso psicologico-sentimentale, ma indica il centro profondo nel quale l’uomo si determina alla conoscenza e alla decisione ed è dunque il luogo in cui lo Spirito lo raggiunge. In forza di questa epiclesi, l’estetica del generico “canto sacro” si trasfigura in specifico “canto santo” che modula musica rispondente al discorso Logos-Pneuma-Melos. È questo lo statuto sonoro che fa “santo” quel canto che gli permette di assumere la sua identità “sacramentale”. Come nessuna liturgia è senza lo Spirito, così nessuna preghiera in canto è senza lo Spirito. L’epiclesi è l’energia qualificante di ogni preghiera liturgica in canto affinché essa non si deformi in gesto coreografico, accademico e concertistico. È in forza di questa epiclesi che, nella celebrazione della divina Liturgia, l’assemblea può intonare il “canto nuovo” dell’Agape.

Giuseppe Liberto