SOLITUDINE, CREATURA ASPRA E SOAVE

Solitudine: parola amara che lacera l’anima e riempie il cuore di paura. Essa è l’espressione di una delle più gravi afflizioni dell’uomo. È come un clima gelido che illanguidisce le energie della volontà, oscura la luce dell’intelligenza, spegne l’ottimismo del cuore. La solitudine non è soltanto mancanza di compagnia e isolamento esteriore, essa è soprattutto vuoto e abbandono interiore.

All’interno della civiltà contemporanea, tanto ricca di forme associative, tale situazione interiore è più diffusa di quanto non si pensi. L’uomo, in preda a questo vuoto interiore, ha paura di stare con se stesso e va in cerca di sedativi, di distrazioni, di evasioni, di droghe che riescano ad appagarlo. È vero che il male della solitudine è il vuoto che porta l’uomo al limite della debolezza e dell’impotenza, però, se avrà la forza di aprire il cuore alla ricerca del mistero, la creatura umana troverà in Dio la sorgente della speranza e la fiducia nella vita. La solitudine, allora, potrà diventare condizione favorevole e, persino, stato privilegiato per assaporare la presenza di Dio che in modo definitivo può riempire il vuoto interiore che nessuna realtà creata può riuscire a colmare.

L’uomo, da sempre ha avuto bisogno assoluto di Dio e la solitudine di chi vive senza Dio è la più paurosa e pericolosa. Fecisti nos, Domine, ad Te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in Te. È questo il grido accorato di sant’Agostino in ricerca di Dio Bellezza e Verità, Bontà e Amore. Soltanto in quest’apertura di cuore, il vuoto dell’umana miseria si trasforma in pienezza di Dio. La solitudine, allora, da tragica diventa beata: «O beata solitudine – esclama san Bernardo – mia sola beatitudine!».

Gli asceti ci istruiscono che i gradi della beata solitudine sono tre: solitudine degli uomini, solitudine del silenzio e solitudine del cuore.

Solitudine degli uomini

Non si tratta di misantropia o isolazionismo. I Greci, già nel VI secolo a.C., per bocca di Anassagora, dichiararono che lo scopo della vita è la scienza del conoscere, quindi è necessario favorire la migliore facoltà umana che è l’attività della mente, aiutandola a risalire fino a Dio che è la piena intellegibilità. Non bisogna dimenticare che i primi “eremiti” furono i Greci, i quali, proprio perché filosofi di razza, compresero la necessità della solitudine. Scrive Platone: «Come in tempo di burrasca ci si mette al riparo dietro un muro, così ci si volge verso quella città che ciascuno porta dentro di sé». Plotino chiude così le sue Enneadi: «Tale è la vita degli dei e degli uomini divini: svincolarsi da tutto il resto, liberi da tutte le cose di quaggiù, vita inaccessibile al piacere delle cose presenti, fuga del solo verso il Solo». Per questi filosofi, la solitudine degli uomini serve al bene dell’intelligenza, della conoscenza e della contemplazione. I cristiani, però, non possono amare la solitudine per se stessa perché sarebbe in contraddizione col primato della carità. Sant’Ireneo, infatti, per combattere gli agnostici, scrive: «Il principale dovere della carità è più prezioso della conoscenza, più glorioso della profezia, supera tutti i carismi».

Tutto l’insegnamento del Nuovo Testamento è fondato sul principio che la perfezione cristiana consiste nel vivere la carità senza confini che ci introduce nel Mistero di Dio (cf Lc 10,25-38; Mt 25,31-46. 5,44; 1Cor 13; 1Gv 4,16). Tutto nella Chiesa parla di koinonia edi agàpe che sono armonia di comunione. La solitudine è mezzo eccellente per giungere alla sublime comunione con Dio e i cristiani uniti tra di loro in Dio. Se i filosofi greci puntano lo sguardo sul valore dell’intelligenza ricercando la solitudine per filosofare, i mistici cristiani cercano la solitudine per vivere l’amore nel suo supremo esercizio.

L’esempio di Gesù che si ritira a pregare spesso e da solo in luoghi deserti, ci fa capire che nella solitudine del deserto di Dio l’uomo ritrova se stesso e accoglie gli altri come fratelli.

Solitudine del silenzio

Non è il silenzio della natura, non è il mutismo dell’umano orgoglio, non è il falso tacere della menzogna, non è la taciturnità congenita né il vuoto dell’ignoranza, il silenzio è pienezza di solitudine interiore. È il silenzio dell’Eterna Infinita “silente Trinità”. Dall’eterno silenzio Dio crea il cosmo. Dall’eterno silenzio del Padre scaturisce il Verbo eterno come irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza (Eb 1,3): Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo rapido corso, la tua parola onnipotente dal cielo si lanciò in mezzo a quella terra (Sap 18,14-15). San Giovanni della Croce scrive: «Il Padre dice una sola Parola: è il suo Verbo, il Figlio suo. La pronunzia in un eterno silenzio ed è solo nel silenzio che l’anima può intenderla». San Gregorio Nazianzeno propone di insegnare a controllare la parola esercitandosi a tacere. In effetti, le vere parole che incidono si staccano sempre da un fondo di silenzio. La verità ama il silenzio e di esso si nutre. È il silenzio che insegna ad ascoltare, a usare saggiamente della parola e a fraternizzare nel dialogo. Il silenzio, infatti, è definito “padre dell’ascolto”. Il frastuono logora le facoltà interiori rendendo l’uomo superficiale, rozzo e violento. La musica e il canto, sublimazioni del pensiero e della parola, nascono dal silenzio e nel silenzio si offrono in dono. Il Salmo 141 ci fa pregare: Poni, Signore, una custodia alla mia bocca, sorveglia la porta delle mie labbra (v. 3). Dalla preghiera del silenzio nasce la lode: Signore, apri le mie labbra e mia bocca proclami la tua lode (Sal 50,17).

Gli asceti danno grande significato all’efficacia spirituale del silenzio. Ascoltiamo Isacco di Ninive in un brano tratto dal De perfectione religiosa: «Più di ogni altra cosa ama il silenzio; esso ti reca un frutto che la lingua è incapace di descrivere. Da principio siamo noi stessi a imporci di tacere, ma in seguito, dal nostro stesso silenzio sorge qualcosa che ci trascina al silenzio. Dio ti doni il sentimento di questo qualcosa che nasce dal silenzio!». Nei due silenzi, quello di Dio e quello che dalla creatura sale a Dio, si compie la sublime comunione teandrica: Silentium meum loquitur tibi, afferma l’Imitazione di Cristo.

Solitudine del cuore

Soltanto chi ama di purissimo amore sa percepire la parola nella solitudine del cuore. Il termine “cuore” esprime l’unità dell’essere umano armonizzando corpo e anima, azione e spirito. Il cuore dice la profondità dello spirito all’interno del corpo. Il cuore è la fonte della personalità cosciente intelligente e libera dell’uomo. Per trovare Dio occorre cercarlo e amarlo con tutto il cuore. Il cuore è il punto d’incontro tra Dio e l’uomo: L’uomo guarda all’apparenza ma Dio guarda il cuore (1Sam 16,7). La purezza interiore diviene così requisito fondamentale per vedere Dio: Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio (Mt 5,8). Non si tratta di vedere lo spettacolo di un Dio in nicchia, ma di partecipare alla divina liturgia della beatitudine eterna.

Gli stoici, avendo intuito il vero male dell’uomo, volevano guarirlo con cure contrarie all’uomo stesso; essi, infatti, si sforzavano di spegnere in loro la sorgente dell’affettività come contraria alla ragione e alla natura. Avevano indovinato la diagnosi, ma sbagliavano la terapia e la posologia. Mancava la Rivelazione! Però i tempi erano maturi per accoglierla. I cristiani invertiranno il senso del movimento degli stoici, distogliendolo dalle creature e volgendolo al Creatore. La vita cristiana non ha che un solo scopo: la salvezza eterna conquistata attraverso la perfezione della carità (cf LG 39-42). L’unica sapienza e l’unico dovere consiste nel vivere quello stile di vita che consente all’uomo di realizzare la carità con cui si ama Dio sopra ogni cosa e il prossimo per amore di Dio.

Lo sguardo vitale e luminoso dell’occhio puro ha la sua radice nel silenzio del cuore. Il dolce richiamo di Gesù a Marta, infatti, non è disapprovazione per le sue doverose premure d’ospitalità ma paterna ammonizione a lei che vuole distogliere la sorella dall’attività spirituale in cui si trova: il dialogo d’amore con Gesù nella solitudine del cuore. Il Maestro non disprezza l’attività di Marta, la mette soltanto al suo giusto posto, cioè, in rapporto e in dipendenza da quella di Maria che ha scelto la parte migliore, quella che non le sarà tolta (cf Lc 10, 38-42), dando così significato e valore a quella di Marta. E ancora Gesù ammonisce: Quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà (Mt 6,6). Cos’è il “segreto” se non la solitudine del cuore, luogo privilegiato in cui il Padre che è nei cieli incontra i suoi figli amatissimi? Oggi, le sceneggiate pubblicitarie dell’apparire teatrale con una mal compresa “Chiesa in uscita”, porta sempre alla non comprensione della missione universale data agli undici apostoli: Andate e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi comando. Io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo (Mt 28, 19-20). 

Giuseppe Liberto

RICORDIAMO TERESA DI GESU’ BAMBINO

Quel giorno Gesù, chiamato a sé un bambino, lo pose in mezzo ai suoi discepoli e disse loro: Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli (Mt 18,3). E’ questo l’ideale evangelico che la Chiesa propone sempre ai suoi figli sull’esempio vivo della giovane Teresa di Gesù Bambino. E’ la “Storia di un’anima” (1899) che ebbe accoglienza eccezionale e sorprendente successo sia ai ricchi sia ai poveri, sia ai dotti sia agli ingenui. La sua “piccola via dell’infanzia spirituale” indica la forza dell’amore di Dio che Teresa ebbe nel cuore della Chiesa in cui aveva scoperto la sua vocazione. Nello spirito delle beatitudini, Dio la condusse per mano all’offerta totale di se stessa all’amore per la salvezza del mondo. A chi la invoca, Teresa continua a essere presente con un’interrotta “pioggia di rose”.

“Fiorite fiori” facevo cantare ai cantori domenica 19 ottobre 1997, in San Pietro, per la proclamazione di Santa Teresa a “dottore della Chiesa”. Erano i fiori dell’Ecclesiaste ma anche dal Cantico dei Cantici, erano i fiori di Isaia, i fiori dei figli santi del giardino di Dio dove la rosa si sfoglia nell’Amore. Queste parole si armonizzano con i versi di Teresa: “Per te, Gesù, vorrei sfogliare la rosa che fiorisce, gettare fiori e petali…”.

Dal Santo Vangelo, Teresa ha colto la ricchezza e la concretezza, ne ha gustato la poesia, la freschezza, il simbolismo con l’essenzialità nobile e semplice della giovinezza dell’ animo. Ogni espressione dei suoi scritti, siano lettere come anche poesie, è un richiamo alla santa Scrittura, quasi ascolto sapienziale e orante della Parola. Si lascia così guidare dallo Spirito che la dispone a lasciarsi amare dal suo amato Signore.

Ecco alcune profetiche intuizioni spirituali di Teresa!
– Innanzitutto la scoperta dell’Amore misericordioso di Dio. La Santa, difronte alla sfida dei tempi in quella svolta drammatica di fine Ottocento, “riscopre il Vangelo in tutta la sua carica profetica”. L’abbandono all’Amore misericordioso trasforma le sue paure in occasione per offrire se stessa a Colui che ha vinto il mondo con sua Croce gloriosa.
– Attraverso la sua breve e fecondissima esistenza, Teresa testimonia il dinamismo della vita trinitaria, scopre la radicale novità dell’Incarnazione: “l’importanza della quotidianità e della responsabilità nel nome stesso di quel Gesù che è il Dio con noi, uomo tra gli uomini”.
– Vive in entusiasmo l’amore intenso per la Chiesa che è “seme di Dio sulla terra e che attraverso Gesù è ormai parte integrante della storia umana”.
– Lo sguardo semplice e profondo, intuitivo e penetrante, femminile come quello della Madre di Gesù, verso il mistero di Cristo, spalanca “un rapporto diretto con la persona di Gesù”.
– Come i grandi mistici, anche Teresa conosce la notte della fede e “testimonia, dall’interno del dramma dell’ateismo contemporaneo, il miracolo della solidarietà e dell’intercessione”.
Alla scuola di santa Teresa di Gesù e di san Giovanni della Croce, anche Lei, Teresa di Lisieux, è ormai Dottore della Chiesa.
Ci sono cinque espressioni che rivelano le principali esperienze spirituali della vita di Teresa soprattutto nel momento della sua preziosa morte avvenuta al tramonto del giorno del 30 settembre 1897.
– La prima, che ha per titolo “Madre, il cui riso amabile” è tratta dall’ultima di quelle 25 ottave di cui si compone la più bella poesia di Teresa: Perché t’amo, o Maria, composta nel maggio del 1897. In quell’espressione, la Santa chiede alla Vergine Maria che ritorni a sorriderle perché sta affrontando la morte così come le aveva sorriso quando era ancora piccola, salvandola dal male.

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– La seconda ha per titolo “E’ Cristo l’amatore”. Sono tre strofe della poesia “I responsori di sant’Agnese”, composta il 21 gennaio 1896. In queste espressioni Teresa canta il suo innamoramento per Gesù. Questa passione d’amore le farà sperimentare le dolcezze più gustose e rare che le daranno la forza contro “il ferro e il fuoco” del male.

– La terza ha per titolo “Scendendo in terra” e riferisce la prima strofa della poesia “Il cantico di suor Maria della Trinità e del Volto Santo”, che compose il 31 maggio del 1896. Con questa espressione vengono ricordati i due aspetti principali di Cristo nella devozione di Teresa: Gesù Bambino e il Volto Santo.

– La quarta espressione dal titolo “Noi discendiam dalla magion degli angeli”, ricorda il momento conclusivo tragico e glorioso, drammatico e affascinante della vita di Santa Giovanna d’Arco, raccontato nel dramma composto da S. Teresa ed eseguito il 21 gennaio del 1896. Mentre Giovanna muore bruciata sul rogo, dal cielo scendono quelle misteriose Voci amiche che la vogliono portare nel trionfo del paradiso celeste. Sarà così anche di Teresa: Lei morirà sul rogo delle vampe d’amore.

– La quinta espressione porta il famoso titolo che rivela chi è Teresa: “Morire d’amore!”. Si tratta della XIV strofa dell’altra sublime poesia della Santa: “Viver d’amore!” composta il 26 febbraio del 1895. Come si vive, così si muore e la vita d’amore di Teresa la conduce a morire d’amore.

Sappiamo bene che pregare è conversare “a cuore a cuore” con Dio! Cantare è il gesto proprio di chi sa pregare amando! Sant’Agostino, inebriato dall’amore divino, afferma: “Cantare amantis est!”. Il gesto del canto è proprio di chi è capace d’amare.
Cos’è la preghiera se non il sublime restare cor ad cor con Dio, Trinità Amore?

Il salmo 131 ci istruisce che, attraverso l’umile preghiera dell’abbandono, si è come un bimbo svezzato in braccio a sua madre (v.2). La mamma che stringe tra le braccia il figlio suo è icona sempre antica e sempre nuova, della materna tenerezza misericordiosa di Dio Padre. Teresa di Gesù Bambino così implora cantando:

Tu che conosci la mia infinita piccolezza,
non temi di abbassarti fino a me!
Vieni nel mio cuore, Ostia bianca che amo,
vieni nel mio cuore che ti attende!
Ah, come vorrei che la tua bontà mi lasciasse morire d’amore

dopo questo dono.
O Gesù, ascolta il grido della mia tenerezza: vieni nel mio cuore!

Questa è l’ultima composizione poetica scritta dalla Santa nella notte tra il 12 e 13 luglio 1897. E’ la mia prima composizione musicale dopo la nomina a Maestro della Cappella Sistina. Composta a Santa Marta, tra la sera del 30 settembre e il mattino del 1 ottobre 1997, fu eseguita il 19 ottobre 1997, al secondo canto di comunione. I Testi del Proprio della Messa, per la proclamazione di Santa Teresa a Dottore della Chiesa, furono elaborati dagli scritti della Santa, da Crispino Valenziano e da me musicati.

Giuseppe Liberto

DAL QUIETO SILENZIO AL CANTO D’AMORE

Oggi siamo inondati da una fiumana di parole d’ogni genere. In un mondo così fatto, come si può continuare a rispettare la parola che ha perduto il suo potere creativo e la sua funzione comunicativa che alimenta la concorde comunione tra le persone? Quando le parole umane non sono più il riflesso della Parola divina che ha creato il cosmo e continua a ricrearlo, esse, perdendo il loro fondamento e il loro significato diventano false e ingannevoli. Pensiamo allora alla parola-fonte che definisce Dio: Amore!

Per i Padri del Deserto, la parola che nasce dal silenzio è lo strumento del mondo presente; il silenzio, che custodisce la parola, è il mistero del mondo futuro. La parola dell’uomo nasce e fruttifica se è innestata nel silenzio di Dio. Quando l’intelligenza non è più filtrata dal silenzio del cuore, genera un tumulto di confuse e insipienti idee che non sgorgano dal silenzio fecondo dello Spirito. Le tante parole dette e molte volte urlate, dicono nient’altro che insignificanze noiose, dubbiosità impigrite e incredulità verbose. La parola che non è radicata nel silenzio è inefficace, è “come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita”(1Cor 13, 1) scrive san Paolo parlando della carità.

Creazione e Redenzione si compiono nel grembo del silenzio trinitario. Dio onnipotente, con la sua Parola, in sublime bellezza e ricchezza, crea tutte le cose visibili e invisibili. Al culmine dei tempi, mentre un profondo silenzio avvolgeva tutto il creato, il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo in noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità (Gv 1,14). Dalla grotta di Betlemme andiamo al Calvario. L’evangelista Giovanni, dallo strazio fisico della morte di Gesù, fa trasparire la Regalità del Messia: cuore del mistero in cui, nel silenzio, si rivela l’Agape di Dio. Il carattere messianico vittorioso della morte avrà il suo culmine nella Risurrezione. Gesù entra nell’ora della sua morte quando, nel misterioso silenzio del Padre, prima di chinare il capo e spirare, dice l’ultima parola: Tutto è compiuto (19,30). La croce del Golgota diventa il trono glorioso di un Regno che non avrà mai fine: Regnavit a ligno Deus. Dal silenzio di questo drammatico stupore, nel cuore d’umiliazione della Kenosis nasce la Chiesa di Cristo.   

San Giovanni della Croce, parlando di Dio come di colui «il cui solo linguaggio è l’amore silenzioso», scrive: «Il Padre non dice che una sola Parola, ossia il suo Figlio, e la dice in un silenzio eterno. L’anima, quindi, deve udirla nel silenzio» (Massime 147). Dio, nessuno l’ha mai visto (Gv 1,18) e ancora: Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il figlio vorrà rivelarlo (Mt 11,27). Il Padre si svela e il Figlio è la Parola che lo rivela. Ben sappiamo che l’ascesi del vuoto conduce a un freddo mutismo che ascolta soltanto se stesso. Il fuoco dello Spirito, invece, riversando nel cuore umano l’acqua viva del Verbo, trasfigura il silenzio in ascolto della Parola per l’incontro con l’ineffabile mistero divino che rende capaci di parlare la stessa Parola di Dio. Soltanto così la parola umana si trasforma in preghiera come dialogo con Dio in cui l’ascolto della sua Parola si armonizza con la risposta d’amore della nostra fede. Il silenzio diventa così colloquio d’amore orante tra le due intimità, la divina e l’umana.

San Luca nel suo Vangelo ci descrive quel momento commovente in cui, dal silenzio della preghiera di Cristo, sgorga spontanea la richiesta di uno dei suoi discepoli: Signore, insegnaci a pregare (11,1).Dal cuore silente di tutti i discepoli di Gesù dovrebbe sempre sgorgare spontanea la stessa struggente invocazione che chiede al Maestro il vero modo di rivolgersi a Dio con lo stesso melos con cui il Figlio si rivolge al Padre. Lo Spirito d’Amore che nell’eterno silenzio procede dal Padre e dal Figlio, nel silenzio dell’orante feconda e illumina la preghiera del Pater che Cristo ci ha insegnato.

Da questa preghiera nascono le molteplici preghiere di lode, di supplica e di rendimento di grazie, e anche la stessa preghiera d’Israele, assunta da Cristo e dalla Chiesa primitiva, soprattutto con il canto dei Salmi.

In una società loquace e parolaia il silenzio può diventare realtà temibile che crea o disagio e alienazione egoistica oppure verbosità snervante, nevrotica e distraente. Il vero silenzio è qualità del cuore che rivela la verità nella carità. Oggi, nelle celebrazioni liturgiche, quella sorta di religioso frastuono festaiolo e divertente diventa rischio pericoloso che serve soltanto a riempiere il vuoto di fede che urla verso una sorta di un “dio idolo”. Il silenzio orante è apertura di cuore alla parola di Dio. Nella Lettera ai Romani san Paolo ci istruisce che se con il cuore si crede con la bocca si canta la fede! È il silenzio fecondo che richiede un cuore capace di aprirsi a ogni comunione di vita e, dilatato dal fuoco della carità divina, provoca quell’impulso che è testimonianza e annunzio delle meraviglie che l’Amore di Dio opera nel credente.

Il silenzio, dunque, non è mutismo del vuoto interiore o incapacità di comunicare per motivi psicologici, ma l’alveo fecondo dell’amore divino da cui la parola attinge l’energia del pensiero e l’efficacia dell’incantum che esprime la festa del Paradiso, lì dove si vive eternamente immersi nel silenzio di gloria dell’amore adorante e contemplante.

La celebrazione dei Santi Misteri celebrati nella divina Liturgia è anticipazione e pregustazione del vivere paradisiaco. La celebrazione liturgica è evento di silenzio interpuntato da due vibrazioni di luci sonore: il Verbo del Padre che viene a noi nel sacramento e la nostra lode che s’innalza a Dio come profumo d’incenso. Il silenzio è luce che fa risplendere la Parola affinché diventi vivificante; nel silenzio, la luce fa germogliare la Parola nel cuore del credente perché si trasformi in canto di lode, di supplica e di rendimento di grazie. Il canto diventa l’ornamento del testo che ri-dice la Parola per rivelare le sublimi verità. Col canto della Liturgia, dunque, non si è esecutori in concerto per spettatori, ma ministri oranti che, attraverso il nobile e semplice linguaggio musicale, offrono a Dio, con intelligenza spirituale, le lodi che immergono nel silenzio in splendore del suo amore eterno e infinito.

Giuseppe Liberto

O ALBERO GEMMATO NEL GIARDINO

Così canta il celebre inno della Croce nella Liturgia bizantina del VII secolo:

                                                              Oggi è sospeso al legno                                       

Colui che ha sospeso la terra sulle acque,

Cinto di una corona di spine, il Re degli angeli.

Una porpora vergognosa riveste Colui che ha avvolto il cielo di nubi.

Riceve degli schiaffi,

Colui che nel Giordano liberò Adamo.

Appeso con dei chiodi, lo Sposo della Chiesa.

Trafitto da una lancia, il Figlio della Vergine.

Adoriamo la tua passione, o Cristo;

mostraci anche la tua gloriosa Risurrezione.

La tua croce, o Signore,

è vita e risurrezione per il popolo tuo.

              Nel secolo V, anche la pellegrina Egeria parla di queste due Feste, ma in realtà si tratta dell’anniversario della Dedicazione di due basiliche, quella del Martirium, costruita sul Golgota e quella dell’Anastasis sul Sepolcro di Cristo. Egeria scrive che questa memoria anniversaria si celebrava con la massima solennità poiché ricordava, appunto, il ritrovamento della Croce. Il 14 settembre, almeno sin dal secolo VII, sembra la data fissata per fare memoria dell’evento. In Occidente, la festa cominciò a essere celebrata al tempo in cui papa Sergio (687-701) scoprì un frammento della Croce che da allora fu esposto alla venerazione dei fedeli. La storia ci tramanda che il giorno del Venerdì Santo la santa reliquia era portata dal Laterano alla chiesa di S. Croce in Gerusalemme e, dopo il bacio e l’adorazione dei fedeli, era riportata al Laterano.

              La Croce è adorata per il mistero di redenzione contemplato nel suo aspetto d’immolazione, attraverso la quale viene la vittoria sul peccato e sulla morte. È paradossale il fatto che questo strumento di umiliazione e di morte, diventi segno di esaltazione e di vita. Si tratta di celebrare Gesù Cristo, il Figlio del Padre che ci ha salvato, e continua a salvarci nello Spirito, grazie alla sua morte e alla sua gloriosa risurrezione.

              Nel Vangelo di Giovanni, Gesù, rivolgendosi ai cristiani del futuro e insegnando loro che la verità su di Lui non consiste nell’inerte ricordo di fatti remoti, ma nella sua indefettibile presenza, quella cioè in cui vive la Chiesa nell’oggi della storia, con maestosa semplicità dice: Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io Sono e che non faccio nulla da me stesso, ma parlo come il Padre mi ha insegnato (Gv 8,28).

Io Sono è la definizione del Dio della Gloria (Es 3,14), ed è equivalente al nome di Iahwè, cioè di Colui che è. Si tratta allora della vittoria essenziale di tutto il genere umano. Ormai è vinto il senso della colpa ed è distrutto per sempre lo stesso peccato, perché Cristo portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce (1Pt 2,24). 

              Il libro dei Numeri ci narra la celebre storia del serpente di metallo nel deserto, non strisciante ma issato su un’asta. Tutti gli Ebrei, morsi dai serpenti velenosi, guardando quella figura, non morivano. Dio voleva educare il suo popolo per liberarlo da una religione naturale e magica che era quella dei cananei e puntare invece lo sguardo di fede su Jhwh, unico salvatore-guaritore. Anche nell’incontro notturno con Nicodemo, al culmine del monologo rivelatore, Gesù spiega che quel segno era figura di Lui e dice: E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna (Gv 3,14-15). San Giovanni usa la parola “innalzato”, in greco upsozenai, per indicare sia l’innalzamento di Cristo sulla croce sia l’esaltazione gloriosa. La Gloria non è premio alla croce, ma la stessa Croce è già Gloria: l’Elevatio Crucis è Exaltatio Gloriae. La croce, lungi dall’essere un segno di fallimento, è trionfo e gloria. L’esaltazione designa, infatti, il potere regale di Cristo.

              Nel quarto canto del Servo di Jhwh, Isaia, con tocco profetico, istruisce che l’esaltazione del Servo, dopo le sue sofferenze, era considerata come l’esercizio di un potere regale: Ecco il mio Servo… sarà esaltato (52,13). Perciò io gli darò in premio le moltitudini e con i potenti dividerà i trofei (53, 12). Il tema dell’abbassamento-esaltazione è anche cantato da Paolo nella lettera ai Filippesi: Cristo si è umiliato, Dio l’ha esaltato (cf 2, 5-11). La Croce è l’abisso dell’abbassamento ma anche l’apice dell’esaltazione nella glorificazione pasquale. Ogni nostra vittoria è sempre inchiodata su quel legno mortale di umiliazione e di esaltazione.L’antifona d’ingresso canta: Di null’altro mai ci glorieremo se non della croce di Gesù Cristo, nostro Signore; egli è la nostra salvezza, vita e risurrezione… Per mezzo di lui siamo stati salvati e liberati (cf Gal 6,14).

              Da quel primo Venerdì Santo, l’ora terza rimane inchiodata nella mente e nel cuore di ogni uomo che vive, nel tempo della storia redenta, il mistero di Cristo morto e risorto. Da quel Venerdì Santo, la Croce gloriosa l’abbiamo sempre sotto gli occhi, la portiamo tra le mani, appesa al collo, tra i grani del rosario, in cima agli altari. Il Cristo in croce è dipinto su tela, è scolpito nel legno, è fatto di bronzo o d’argento, d’oro o di madreperla. C’è però il pericolo che rimanga puro ornamento di un prezioso oggetto d’arte! Se la bellezza artistica fa dimenticare il dramma dell’agonia e della morte di quell’ora terza sino all’ora nona quando lo crocifissero, abbiamo tradito il Cristo Redentore. Quell’arte non sarà mai bellezza che salva ma arte che distrugge.

Il Cristo della beata Passione deve essere contemplato con gli occhi del cuore della Madre e con lo sguardo d’amore di Giovanni, il Discepolo che Gesù amava, altrimenti saremo dei veri traditori dell’Amore che redime.

              Nell’incontro della risurrezione, anche se non è dato, come a Tommaso, di toccare con le mani il segno dei chiodi, a noi è dato, nel mistero dell’Eucaristia, di poter sfiorare per grazia il Pane spezzato e offerto sulle mani per nutrirci di Lui. Nello stupore della transustanziazione, chi presiede celebrazione canta: Mistero della fede! E l’assemblea, avvolta dallo stupefacente Mistero, risponde acclamando: Ogni volta che mangiamo di questo pane e beviamo a questo calice, annunziamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta. Ogni celebrazione eucaristica è l’apice dell’esaltazione gloriosa della Croce. La divina Eucaristia esalta il mistero di morte e di risurrezione di Cristo. La Chiesa, con la parola e l’azione, ne annunzia e ne proclama il valore infinito che trascende lo spazio e il tempo e che si perpetua sempre immutato con tutta la sua potenza di vita sino all’eternità beata.

Giuseppe Liberto

MISTERO E NATURA UMANA

La natura umana che è sempre stata la bussola dei filosofi, dei teologi, degli artisti corre il rischio di essere stravolta, equivocata e vanificata. Il fatto di non avare più un fondamento comune preferenziale per parlare della persona umana e della sua identità conoscitiva, volitiva e operativa spinge ad adottare misure convenzionali riduttive e perciò molto discutibili per definire chi è la persona umana. L’individuo umano è così ridotto a realtà funzionale manipolabile e strumentalizzabile distruggendo l’idea religiosa, metafisica e finalistica di natura umana. Sappiamo bene che storicismo, materialismo e scientismo riducono la persona umana a trame di relazioni storiche divenendo così mezzo di cui altri possono disporre a loro arbitrio.

La Santa Scrittura rivela l’idea della creazione uscita dal nulla dalle mani di Dio. Dio crea l’uomo e la donna a sua immagine e somiglianza. La persona umana, nella sua specifica natura, è intelligente e libera. La natura divina lo rende superiore in dignità a tutte le altre creature del regno vegetale e animale e questo lo rende capace di vivere, volere, gustare, valutare, conoscere l’intera realtà creata sotto forma di verità, bellezza, bontà con doveri morali e spirituali. La persona è così relazionata, analogamente a Dio, al mondo e ai suoi simili secondo le diverse guise e non come individuo strumentalizzato e forgiato dalla società nel bene e nel male impelagato soltanto nell’agire affaristico sino a parossismo.

Un antico proverbio cinese ammonisce: «Se hai due soldi, compra con il primo un pezzo di pane e con il secondo un fiore: il pane ti farà vivere, il fiore ti darà una ragione per vivere». In quel fiore vedo la poesia della vita che, dopo il pane che nutre, è bellezza che incanta. Gesù ci insegna a incantarci nell’osservare la bellezza della natura e in questo è maestro. Quel guardare indugiando, sulle sue labbra diventa poesia istruttiva che rivela verità: Guardate gli uccelli del cielo…Osservate come crescono i gigli del campo…Con questi toni poetici Gesù ci istruisce come dobbiamo abbandonarci alla divina Provvidenza (cf Mt 6, 28-30). Osservare un fiore, contemplare un tramonto, nutrirsi di bellezza è già poesia. Lo scolorirsi dello sguardo induce sempre a relazioni squallide e pallide, a costruzioni asettiche di cuore e di mente, senza brividi di tenerezza. E’ necessaria la fragranza del pane come anche il profumo di un fiore! Accanto ai campi di grano germoglino anche i prati in fiore! Frutti e fiori sono “sacramenti” di bontà e di bellezza che insieme costruiscono l’uomo in armonia con se stesso, con i propri simili e con la natura.

Gli occhi del cuore e la poesia della vita fanno contemplare e gustare l’Invisibile Eterno Infinito. Questa sublime esperienza ci salva anche dall’idolatria che non è solo il peccato degli atei per i quali Dio non esiste, è anche il peccato dei falsi credenti che scambiano Dio con le realtà terrene. La poesia non ha come metro di giudizio il consumismo o la mercificazione che insidiano i valori più alti dello spirito umano. La poesia scaturisce dal mistero dell’uomo che è alla ricerca della Luce di Verità e della Bellezza di Bontà. Fare poesia è cantare col cuore la Verità dando voce al fascino e al dramma della vita.

Il linguaggio poetico è canto di chi è capace di ascoltare col silenzio del cuore e di chi sa vedere con l’intuito della ragione. Lo sguardo caldo e raffinato e la voce potente e delicata, spalancano insieme le porte della vita per inebriarsi della verità. Il punto di concentramento del poeta è nella sua anima, dove contempla un’impressione, un’idea, una suggestione che poi esprime attraverso il linguaggio poetico. In effetti, l’arte della poesia serve per dare fragranza alla vita con occhi assetati di umanità e per attraversare la storia con serenità e coraggio, nonostante le debolezze, le preoccupazioni e le sconfitte. Ogni artista esprime idee, sentimenti e ideali che ogni uomo può liberamente rivivere, perché rivelano parte della coscienza e dell’esperienza umana in ogni luogo e in ogni tempo.

La poesia richiede parole che diventino vita e non rimangano suoni squallidi, vuoti e talvolta sporchi di insensatezza e di degrado. L’arte poetica esige l’in-canto delle parole che sgorgano dal cuore, e dimorano nel cuore per nutrire e arricchire lo spirito.

Nella pittura, lo sfondo dell’icona, con termini tecnici è chiamato “luce”, perché con essa l’iconografo dipinge i personaggi che sono immersi in una trasparenza che è pura e trasfigurante luminosità. Nella poesia è la parola che è luce nell’armonia delle frasi che cantano il mistero, l’uomo e il cosmo. Nella musica è la parola che si canto. Fare arte poetica è dunque realizzare Amore ricercando Verità nella Bellezza: magnifico e drammatico cammino dell’uomo pellegrino dell’Assoluto!

All’inizio delle Confessioni, sant’Agostino scrive questa famosa frase: Tu excitas, ut laudare te delectet quia fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te (1, 11). Con questa frase, dandoci la vera dimensione umana e cristiana, Agostino, è proteso ansiosamente verso Dio con le sue intime e profonde aspirazioni del cuore inquieto in cerca del divino. Con le due frasi: Tu excitas e fecisti nos, da grande convertito,Agostino mette in evidenza l’iniziativa divina nel campo della grazia e della creazione. Poi espone il piacere gioioso della lode orientata verso Dio che è il gesto più nobile e degno dell’uomo ut laudare te delectet. E infine esprime l’insoddisfazione umana e il riposo in Dio: inquietum cor e requiescat in te. Agostino è in ricerca perché il suo pensiero e la sua vita sono in continua evoluzione. Egli non conosce la tranquillità di chi, chiuso nella mediocrità quotidiana, è pago di se stesso senza apertura di cuore, senza lo slancio degli ideali, senza il gusto della bellezza. Lui è l’inquieto che cerca e che ama cercare perché l’amore è attesa, sorpresa e possesso, ecco perché vive in uno stato di tensione.

L’elemento dinamico della conoscenza di se stessi è indispensabile per arrivare a Dio e la conoscenza di Dio è necessaria per conoscere se stessi. Solo nello splendore della luce di Dio si può ritrovare se stessi. L’inquietudine è verità che illumina la mente, è felicità che appaga il cuore, è entusiasmo che brucia d’amore creando bellezza. E’ un costitutivo carattere dell’uomo perché e il segno del rapporto tra creatura e Creatore. E’ anche segno primordiale del modo con cui Dio interviene per ricuperare l’uomo e ricrearlo sempre a sua immagine in bellezza e in bontà.

Giuseppe Liberto 

CREARE BELLEZZA PER COMUNICARE AMORE

Faccio mia la celebre frase di Pascal: le coeur a ses raison que la raison ne connait point. Offrire i propri scritti è un modo per fare un dono a chi possiede la capacità di accoglierli con intelligenza ed entusiasmo. La gratitudine per il dono ricevuto si esprimerà permettendogli di diventare fecondi. In effetti, ogni “scritto” l’ho sempre considerato come “incontro” che si sviluppa in un dialogo cor ad cor tra scrittore e lettore.

Spesse volte, a ben rifletterci, la nostra condizione di uomini potrebbe farci paura perché ci accorgiamo di essere circondati da abissi. Dal soffio dell’Eterno Infinito che avvolge il creato. Dall’immensità degli spazi che s’immergono prodigiosamente nel nostro piccolo mondo e nella nostra povera esistenza. Dal silenzioso movimento del tempo che, misterioso e prezioso tiranno, protagonista degli avvenimenti passati, presenti e futuri, compone il fascino, talvolta drammatico, della nostra vita fino a farla diventare, nonostante la sua apparente brevità, una storia senza fine. Da noi uomini, protagonisti di questa “storia senza fine”, che, saturi di caducità, sofferenze, ansie, fatalità, miserie e impotenze, dimentichi talvolta delle realtà essenziali che ci nobilitano e ci elevano, insensibili all’invito dell’Ineffabile ci si tuffa in puerili e momentanee occupazioni, misconoscendo le grandi e fondamentali finalità della vita.

Eppure l’uomo da sempre naviga nel mondo affascinante dell’arte, quasi sacramento divino, che si rivela nell’ascolto, nella visione e nel gusto di quella sublime bellezza che seduce e incanta, nobilita ed eleva, attira e trasfigura. L’arte del bello, però, non è mai frutto del caso ma efficace sintesi di ricerca e laboriosa opera di perfezione. Se l’esecuzione di una partitura sonora è il risultato dell’accanito esercizio della tecnica manuale, l’elaborazione spaziale si ottiene attraverso l’estenuante verifica di pratiche parziali sulle proporzioni, sulle tecniche, sui dettagli dei materiali ricondotti alla loro unitarietà finale.

La storia ci istruisce che fare arte vera è sempre fatica per ricreare frutti di bellezza. Come in natura, così in arte: dopo la semina d’autunno e il silenzio creativo dell’inverno, arriva l’esplosione delle gemme di primavera che attende il prezioso raccolto dei frutti al sole dell’estate. La natura è già essa stessa arte proseguente l’opera sua nello spirito umano. Da ciò deriva l’amore dell’artista per la natura; ispirandosi a essa egli vi si riconosce, e al contatto con essa, il costruttore d’arte assume coscienza del proprio genio. Sappiamo bene che l’arte, come la natura, è creatura viva, non ha nulla a che vedere con il simbolismo pedante, oscuro e pretensioso. Ispirarsi è arte, ma imitare e scimmiottare, riciclare o scopiazzare sono segni di aridità e di miseria. L’arte è creatività originale e personale.

Mi domando: ma il pensiero ha nulla a che fare con l’arte? I cosiddetti “esteti” dicono che l’artista non deve preoccuparsi dell’idea, poiché la forma è già tutto. Separare, però, la forma dall’idea, significa sopprimere l’arte che consiste nella loro compenetrazione. La forma si elabora nello spirito e nel pensiero, non nella costrizione della stessa forma. L’arte è idea vivente. L’idea, divenendo centro della vita interiore, crea il corpo d’immagini di cui si riveste. L’idea non è nulla senza la forma, perché è l’idea che crea la sua forma adeguata. Quanto più la forma rende visibile l’idea, tanto più è arte che crea bellezza. L’idea estetica non è compiuta se non è espressa nell’armonia della forma, altrimenti sarebbe un desiderio di vita che non nasce alla vita. In effetti, spirito e corpo in simbiosi sono la vita dell’uomo. Non basta, allora, avere l’idea se non si ha la capacità tecnica di esprimerla artisticamente attraverso la forma. Non basta, infatti, essere bravi nella forma se non si possiede l’idea. Chi pretende di fare uscire la bellezza da una formula stereotipa e consueta, s’inganna perché crea un lavoro senza vita.

L’opera d’arte si compone nello spirito attraverso la forma. Il pensiero del pittore o dello scultore è la visione della loro tela dipinta o della statua plasmata; così come il pensiero del musicista si esprime attraverso l’ascolto della sua opera musicale. Il modo, poi, di manifestare il pensiero attraverso la forma, si chiama “stile” che vuol dire individualità, cioè, modo proprio di pensare, di sentire, di rivelare l’idea. Possiede lo stile chi ha cose proprie da dire ed è capace di manifestarle in modo eminentemente personale. Si suole dire che lo stile è l’uomo, infatti, è il sigillo dell’artista. Bisogna puntualizzare che per stile dell’artista, non si può intendere solo il modo di esprimersi attraverso la sola forma, ma il modo di manifestare il pensiero e il sentimento attraverso la bontà della bellezza. Non basta, quindi, saper comporre perfettamente attraverso la forma; se manca la scintilla del pensiero, la grazia dell’originalità, la raffinatezza del gusto, non esiste arte viva. Se non esistesse l’eufonica polifonia degli stili, il mondo apparirebbe piatto, monotono e uniforme. Sta tutto qui il fascino dell’arte: l’apparire e il sentire del pensiero in tutta la sua luminosa e originale bellezza interiore ed esteriore.

Nel comunicare arte musicale, le vibrazioni sonore devono mettere in moto le energie dell’anima che ridestano e riabilitano il coinvolgimento interiore di tutto l’essere. In effetti, attraverso l’arte è necessario prendere non soltanto la forma esteriore ma anche la forza interiore. Il musicale non è solo trasferimento d’informazioni ma è comunicazione affettiva capace di suscitare dei legami concordanti attraverso il tono della voce, l’incontro degli sguardi, il gesto espressivo, il modulare dei comportamenti. Tutto deve comunicare quanto sta per avvenire!

Pitagora affermava che il logos creò l’universo attraverso il melos. Il filosofo aveva intuito che Dio, cantando, creava ogni cosa dal nulla. Il libro della Genesi, infatti, descrive il Creatore che canta mentre plasma il cosmo con le sue mani. Dopo che dalle sue dita usciva ogni creatura, cantava con meraviglia che era cosa bella e buona (cf 1, 1-31). Il canto di Dio, così, creava il cosmo bello e buono. Ogni opera artistica deve possedere queste due qualità divine in armonia tra di loro: bellezza e bontà. Bellezza da imparare e bontà da gustare sono gesti d’intelligenza e di sapienza per rigenerare e ridonare opere belle e buone. La creazione in bellezza è, dunque, il modo sublime con cui Dio dialoga con l’uomo. La bellezza in armonia diventa così concordanza tra divino e umano. La divinità incarnata e l’umanità divinizzata sono culmine in cui il Logos-Sapientia crea e ricrea in via pulchritudinis il Melos del duetto teandrico d’amore sponsale.

Con-cordanza è armonia di mente e di cuore. Syn-opsis è abbraccio con un unico sguardo della sinfonia dei cuori. Concordia è arte sinfonica che ascende dal cuore alla ragione e dalla ragione alle sfere dell’eterna, infinita bellezza, per ridiscendere amore trasfigurato e trasfigurante che armonizza divinità increata e umanità creata nella sinfonica Pentecoste dell’amore universale.

Giuseppe Liberto

CELEBRARE IL DONO DELLA VITA

Tempo, Spazio ed Energia.
Il ritmo del tempo e l’energia dello spazio sono misura e forma d’ogni storia creata. Essi, tra fascino e dramma, intessono la trama magnifica del nostro vivere umano.
Da sempre i musicisti lavorano col ritmo, e nel ritmo creano l’icona sonora della bellezza e della bontà. Il ritmo è, per eccellenza, cambiamento e divisione in modulare isocrono, ordinato e vario. Il ritmo è l’alveo fecondo del tempo e l’energia pulsante che costruisce la storia, tra passato e futuro, nel presente trapunto di nostalgie e di speranze, di sogni e di bisogni, di attese e d’incontri. Occorre però avere mani delicate per essere capaci di sfiorare per grazia i petali del vivere e ricavarne melodie ineffabili. Tra fascino e dramma il ritmo del tempo scorre, fuggendo verso l’Eterno Infinito.
Il passato vive nella memoria del presente.
Il presente è luce di visione.
Il futuro è speranza d’attesa.
Il passato e il futuro nel presente diventano musica dell’esistenza per il cantico della vita. Sappiamo bene però che fare arte per ricreare frutti di bellezza e di bontà è sempre fatica. L’arte, come la natura, è creatura viva, non ha nulla a che vedere con il simbolismo pedante, oscuro e pretenzioso. L’arte vera è fondamentalmente creatività originale e personale. Nella Chiesa di Cristo, la profezia si rivolge pure all’arte che, come la scienza, se non va avanti e si rinnova, insterilisce e muore.

Oggi, 21 agosto, la Chiesa celebra il grande Papa San Pio X. Giuseppe Sarto visse tra due secoli, nacque nel 1835 e morì nel 1914. Il suo motto Instaurare omnia in Christo, fu premonitore di quel cammino pastorale che aveva già iniziato da Vescovo a Mantova e a Venezia e che, appena eletto Papa, lo condusse a pronunciarsi, con la forza e l’autorità di un autentico pastore. Fu precursore del Concilio Vaticano II nel rinnovare la vita della Chiesa, in particolare per la formazione catechistica, liturgica, pastorale, missionaria e apostolica. Attraverso una “Istruzione” quasi codice giuridico della musica sacra, il suo Motu proprio fu allora il tentativo di un vero pastore della Chiesa per rinnovare il canto e la musica all’interno della santa Liturgia. E’ fuori dubbio che l’intervento di Papa Sarto risentiva dei condizionamenti del contesto storico e culturale in cui era inserito, mentre la prassi seppe cogliere lo spirito del documento e andare ben oltre i suoi stessi limiti. In particolare, certe prese di posizioni radicali – come quelle contro il “convenzionalismo” teatrale – troveranno spiegazione nella necessità di frenare gli abusi e gli eccessi di quell’epoca.

La risposta al Motu Proprio di Pio X trovò la sua attuazione nella figura di don Lorenzo Perosi, illustre sostenitore del documento. Egli concordava il gusto di una solennità vocale e il sapore melodico dell’opera, con un suo linguaggio semplice, nobile e comunicativo. Don Lorenzo, stimolato dall’amico Patriarca Sarto, aveva intuito la forza trascinatrice e mistagogica del segno sonoro quale epifania del Mistero celebrato. Il discorso sull’evoluzione della legislazione liturgico-musicale, dal Motu Proprio del 22 novembre 1903 a Musicam Sacram del 5 marzo 1967, traccia un lungo cammino che, col suo significato storico e logico, segue l’evoluzione di riflessioni e di studi che affondano le loro radici nel movimento liturgico, biblico ed ecumenico. A conclusione di un lento e irresistibile processo di riforma, giunge, con vitalità feconda e provvidenziale, sino al traguardo del Sacrosanto Concilio Vaticano II. In effetti, il canto e la musica per la divina

Liturgia devono essere sempre arte vera e santa e, proprio per questo, strutturalmente poietica e culturale.

Oggi, sono trascorsi 80 anni da quando ricevetti la vita dal Creatore di “tutte le cose visibili e invisibili” attraverso i miei genitori Maria e Camillo. Celebrare l’anniversario della nascita è come approdare alle quiete rive del vasto mare di questa sublime esperienza di vita per poterla rivivere come dono e come grazia. Ogni approdo comporta anche il fascino di un nuovo imbarco, per continuare a ripartire verso nuove mete e avventure della vita consacrata all’Amore per il servizio alla Chiesa di Cristo. Approdare e imbarcarsi sono una sorta d’intreccio tra Amore donato e amore ridonato che sono coordinate storiche indispensabili per condurre l’umano cammino tra mistero, fascino e dramma. Sappiamo bene che il fluire del tempo, alimentato dall’Amore divino “sempre antico e sempre nuovo”, è “Dono e Mistero”. Questo movimento, iniziato dal Fiat creativo, non è staticità e chiusura ma cammino verso quell’Eterno Infinito che ci immergerà nell’oceano dell’Amen glorificativo, quando, come dice sant’Agostino, tutto il nostro vivere sarà eterno canto di Amen e di Alleluia.

Se il 21 agosto ricordo la nascita alla vita, il 5 settembre ricordo la rinascita alla vita cristiana attraverso il battesimo celebrato qui, in questo sacro fonte battesimale, dall’amatissimo Mons. Antonino Palmeri. Quell’anno c’era anche Padre Ignazio Sgarlata. Dopo la sua ordinazione a Monreale nel 1941, a causa della guerra tornò a Chiusa Sclafani dove, per tre anni, lavorò in entusiasmo accanto a Mons. Palmeri. Poi, nel 1944, il Vescovo lo richiamò a Monreale. Come non ringraziare Palmeri, Orlando e Sgarlata che, attraverso l’istruzione e la pratica, furono i miei maestri di Sacra Scrittura, di Liturgia e di musica per le celebrazioni liturgiche?

Sono solito ripetere che “ricordare è ringraziare”! Nel ricordo, infatti, il passato vive nella memoria del presente, il presente è luce di visione, il futuro è speranza d’attesa. Tutti siamo stati creati dall’Amore divino per amore e per ridonare amore. Se viviamo dunque vuol dire che siamo frutto prezioso di quell’Amore. Siamo convinti che il creato vive e va avanti perché l’Amore lo conduce. Nel ricordo c’è anche il ringraziamento a Dio Padre Onnipotente e Fonte della vita; a Dio Figlio fatto carne della nostra umana natura e Redentore dell’uomo; a Dio Spirito Santo, Principio della nuova creazione.

Ogni vocabolario possiede due brevi parole impegnative: “Si” e “Grazie”. Il “Si” ricorda l’amore donato e ricambiato attraverso i doni della Vita, della Grazia e della vocazione. Il “Grazie” lo dice chi è consapevole di avere ricevuto i doni e apre il cuore per accoglierli e per custodirli. Ricordare i doni della vita, della grazia e della vocazione è cantare col cuore e inneggiare con la voce, la lode e il ringraziamento che sgorgano dall’immenso e sublime “Rendimento di Grazie” che è “Eucaristia”.

Nella celebrazione dell’Eucaristia vorrei innestare il ringraziamento alla lunga litania dei familiari, dei parenti degli amici. Ricordare e ringraziare significano che non siamo mai soli a costruire la storia personale e comunitaria. Il grazie affettuoso che sgorga dal profondo del cuore è per tutti voi fratelli e sorelle carissimi che vorrei chiamarvi tutti e ciascuno per nome. In effetti, stasera siete qui convenuti per lodare e ringraziare insieme la Trinità Beata per il dono della vita.

Ogni nostro “natale” è dunque Dono e Grazia. Dono di Grazia che si trasfigura in inno d’Amore che col salmista ci fa cantare: O Signore, insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio (Sal 90, 12). Ogni mattino si ricomincia a vivere il preziosissimo frammento di ogni giorno che è dato a noi in dono e che pure passerà confidando nel Signore. E’ questo il contare i nostri giorni in attesa del suo giorno quando si realizzerà la

speranza della risurrezione e il premio della vita eterna. Se la durata della vita umana è contata, è saggezza pensarci! Questa lucidità, però, non è incubo che inquieta e ci esclude dalla gioia, essa è percezione della presenza di Dio che illumina tutti i giorni che Egli ci offre in dono. Solo così il cuore saggio dell’uomo approderà alla sapienza, la sola che può guidare l’umano pellegrinaggio dell’esistenza. Vivere è ricominciare ogni giorno la vita in serenità, gioia ed entusiasmo.

21 agosto 2023
Chiesa Madre di Chiusa Sclafani

Giuseppe Liberto

TRASFIGURATI IN CRISTO

Illuminati da san Paolo, contempliamo il sublime mistero della Trasfigurazione con lo sguardo del cuore. L’Apostolo ci istruisce che soltanto nell’ultimo giorno il nostro povero corpo sarà trasfigurato per essere pienamente conformato al corpo glorioso di Cristo (cf Fil 3,21). San Paolo ci esorta che la vita di Gesù, già al presente, si manifesta nella nostra carne mortale (cf 2Cor 4,11.17), e la sua trasfigurazione si compie in noi ogni giorno: E noi tutti, a viso scoperto, contemplando come in uno specchio la gloria del Signore, siamo trasformati nella sua stessa immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione del Signore, che è lo Spirito (2Cor 3,18). Il termine metemorphothe non corrisponde al concetto greco di “metamorfosi”, esso indica soltanto che sul Tabor Gesù cambiò aspetto. L’esperienza dei discepoli è un’anteprima della gloria che sarà propria di Cristo alla fine dei tempi, nella pienezza del regno di Dio.

Non è il colore materiale della luce, ma lo splendore della gloria divina che fa rispendere il volto di Gesù come il sole e le sue vesti come la luce (cf Mt 17, 2). La gloria che Gesù aveva annunciato sei giorni prima a Cesarea per la fine dei tempi, è anticipata ora sotto lo sguardo incantato dei tre discepoli. Se la gloria appartiene a Dio, perché unico veramente santo, ora essa risplende sul volto di Gesù, non come riflesso della gloria di Dio, come fu per Mosè, ma come splendore che rivela l’intima sua identità divina.

Il significato della “cristofania” come epifania di Dio si può capire soltanto nell’ambito in cui gli evangelisti la raccontano. I discepoli non comprendono come mai la vita possa nascere dalla morte, così come la Gloria possa essere nascosta nella Croce. Nella visione di quella trasfigurata bellezza in splendore di Luce, Dio concede ai discepoli di intravedere ciò che il viaggio di Gesù verso la croce nasconde.

Accanto a Gesù Trasfigurato ci sono Mosè ed Elia che rappresentano la Legge e i Profeti. Essi parlano di Gesù come compimento di ogni promessa di Dio. Ambedue sono stati assunti in Cielo senza fare l’esperienza della morte (cf Dt 34,6; 2 Re 2,11). Con la loro apparizione in questo monte, nuovo Sinai, annunciano che è giunto il tempo della Nuova Alleanza. I due Profeti, avendo percepito l’avvento della Gloria divina, ora possono lasciare la grotta del Sinai senza velarsi il volto e contemplare quel Corpo trasfigurato indicandolo come Colui al quale intendevano riferirsi nelle loro profezie.

Nella Trasfigurazione spiccano due momenti: la reazione di Pietro e la misteriosa voce del Padre. Pietro, contaminato dalla cristologia trionfalistica e affascinato dall’evento straordinario, trascura la cristologia del Figlio dell’uomo che deve soffrire molto, essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, essere messo a morte e risorgere il terzo giorno (Lc 9,22). L’apostolo, che aveva appena professato la sua fede in Gesù e che subito dopo si era opposto al suo annunzio, ora è incantato e, restando sul monte, desidera rendere eterna l’esperienza di quella visione paradisiaca. Quello di Pietro è solo desiderio umano e spontaneo che manifesta incomprensione sul significato dell’evento, che non è inizio del definitivo ma anticipo profetico e fugace di esso. La vocazione del discepolo, infatti, è quella di percorrere la strada del provvisorio e della croce.

Battesimo e Trasfigurazione hanno la stessa voce, quella del Padre. Nel Battesimo afferma: Tu sei il mio Figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto (Lc 3,22). Nella Trasfigurazione, confermando la predilezione verso il Figlio, il Padre dice: Ascoltatelo! (Lc 9,35). Nella Bibbia il verbo “ascoltare” non significa soltanto “udire”, ma equivale spesso a “obbedire” a quel che annunziato (cf Es 6,12; Mt 18,15-16). Ora a quelle parole si aggiunge il comando di ascoltare. Ai discepoli dubbiosi e timorosi, Dio in persona parla e dice che essi devono ascoltare, obbedire, avere fiducia in Gesù e seguirlo sulla via che ha intrapreso, cioè quella della croce gloriosa che culminerà con la passione, morte e risurrezione.

Pietro, attratto dalla bellezza del Trasfigurato, con reazione umana e simpatica, esclama: Signore, è bello (kalòn) che noi siamo qui (Mc 9,5; Mt 17,4; Lc 9,33). Nel racconto della creazione troviamo lo stesso aggettivo che specifica la percezione della realtà che si sta gustando. Cristo trasfigurato si manifesta in forma divina e il divino si rivela attraverso la bellezza dell’umano. Fede e bellezza sono dono di Dio all’uomo. E’ meraviglioso notare come il Logos creatore, incarnandosi, passò tra gli uomini realizzando amore e operando il bene, cioè il “Buono”. E quest’amore vissuto sino in fondo ci ha manifestato la Gloria attraverso il “Bello”. Nella Trasfigurazione l’esperienza estetica si trasforma così in visione estatica.

La gloria di Dio si rivela soprattutto nell’elevatio crucis come exaltatio gloriae. Questo mistero di discesa-ascesa di Gesù è magnificamente cantato nell’inno della lettera ai Filippesi in cui la Gloria è manifestata apertamente e definitivamente affinché ogni lingua acclami: Gesù Cristo è il Signore a gloria di Dio Padre (Fil 2,6-11). La sinfonia glorificatrice raggiunge il suo vertice nella seconda lettera ai Corinzi, in cui Paolo, con ardito contrappunto in splendore di bellezza, elabora un trittico elevatissimo. Dalla gloria di Dio alla sua rivelazione in Cristo, passa all’instaurazione della nuova alleanza in cui i battezzati sono trasfigurati in immagine di Cristo di gloria in gloria. Il canto, modulato all’interno del discorso di Paolo sul ministero apostolico, armonizza croce e gloria, sofferenza e vittoria, tutto irradiato dallo splendore del glorioso vangelo di Cristo che è immagine di Dio (2Cor 7,18; 4,4).

Ogni riflessione sulla bellezza non può prescindere dal puntare lo sguardo sulla “Gloria”. In ebraico il termine richiama il concetto di “peso”, di “onore”. Riferito a Dio, indica la visibilità della sua manifestazione: il “peso” dello splendore della sua presenza nella creazione (Sal 19,2; Is 6,3), nella storia (Es 14,17-18; Sal 96,3), nel santuario (Es 40,34-35; 1Re 8,10-11; Sal 26,8). La Santa Scrittura, parlando di “Gloria”, fa riferimento soltanto alla “Gloria di Dio”. Nella Trasfigurazione, nella Risurrezione e nel Ritorno glorioso, la “Gloria” è attribuita a Cristo.

Nella scuola per i pittori sul Monte Athos, ogni iconografo-monaco, dopo avere eseguito le varie istruzioni liturgiche, teologiche e tecniche, nell’esame conclusivo doveva dipingere l’icona della Trasfigurazione. L’allievo mostrava così la sua capacità di saper realizzare, con l’arte raffinata della luce, il mistero nella visione di splendore anticipata dell’“ottavo giorno” dopo la gloriosa risurrezione dai morti così come lo avevano visto i tre apostoli sul Tabor. Quest’esperienza della visione-ascolto trasfigurante, che conduce a poter essere assimilati all’oggetto contemplato, esige, in effetti, la capacità di saper percepire nello stupore la gloria di Dio gustando e assaporando la libertà ricevuta. Al dono della gloria-bellezza deve corrispondere da parte dei credenti l’impegno di comportarsi come figli della luce, rivestiti di Cristo, Luce del mondo (cf 1Ts 5,4-5; Rm 13,12-14; Ef 5,8).

La trasformazione in luce, anzi, in splendore di gloria secondo l’azione dello Spirito, è trasfigurazione in bellezza teandrica: il Verbo, immagine-splendore del Padre, si è fatto uno di noi; lo Spirito, immagine-splendore del Verbo, è dato a ciascuno di noi; l’uomo, immagine-somiglianza di Dio, è divinizzato dal Verbo fatto Carne nello Spirito che è Dono. La visione-ascolto della Trasfigurazione ci libera dalla paura della Croce e dall’indifferenza della Risurrezione; ci invita a evitare ogni forma di trionfalismo e di superficialità e ci stimola, altresì, a percorrere la via della croce non con la sfiducia della rassegnazione ma con l’entusiasmo della speranza. Vivendo nella storia, solo se trasfigurati in Cristo, i battezzati saranno capaci di trasfigurare il mondo in Cristo.

Giuseppe Liberto

EVANGELIZZARE LE CULTURE

Gesù di Nazareth, che ha attraversato la storia degli ultimi due millenni, non è un mito ma il fondamento storico del mistero d’amore tra Dio e l’umanità.  I Vangeli, le innumerevoli fonti storiche giudee e cristiane, greche e romane, e il suo insegnamento sono sempre state le radici e il fondamento dell’essere e del divenire nel cammino della gran parte dei popoli che vivono sulla terra. Cristo Gesù è tutt’altro che mito, Egli è la storia del mistero di Dio con l’uomo. I miti nascono dalla fantasia degli uomini, la cui mente non è sorretta dalla ragione ma dalla fantasia fuori della storia. Se fosse un mito, Gesù sarebbe stato già archiviato all’interno della mitologia che non è storia.

Gli eventi storici ci tramandano che Cristo è realmente esistito ed è entrato a far parte della nostra vita pur rimanendo un Mistero. Gesù di Nazareth è il Messia d’Israele, è il Figlio di Dio, “generato non creato della stessa sostanza del Padre”. Il Verbo fatto carne della nostra umana natura per opera dello Spirito Santo, ci ha fatto entrare nel sublime Mistero della Trinità Santissima. È Mistero ed è già storia. Mistero che supera la ragione, storia che è verità divinizzante che ci salva.

Dal Cristo incarnato, la Chiesa ha ricevuto il mandato di evangelizzare tutti i popoli di ogni luogo e in tutti i tempi. Quando la Chiesa evangelizza all’interno delle diverse culture, esplodono le contraddizioni messe in evidenza dalle varie tesi tra fede e cultura. Se entrambe mettono al centro la persona umana, la fede è vista come mistero, cioè come essere personale che trascende la storia. Creata da Dio, la creatura umana vive orientata verso il suo Creatore, Signore e Padre. La cultura moderna immanentista, invece, vede l’uomo come padrone assoluto di se stesso e del creato, negando così un legislatore divino. È tipico il pensiero di Zaratustra che, affermando la morte di Dio, dice che l’uomo non attende più nulla. Esiste l’evento della storia ma non l’Avvento di un Dio che, fuori della storia, non esiste. La fede cristiana è orientata e infiammata dalla speranza che vede la storia come l’evolversi di un progetto di provvidenza divina che è storia di salvezza e di attesa, trasfigurante e divinizzante.

Per certo tipo di cultura contemporanea, il fluire storico è considerato come un continuo ripetersi di cicli chiusi, così come avviene per il movimento degli astri. Questo è l’amaro mito dell’eterno ritorno! Circolo chiuso in cui è legato l’uomo in una maledetta schiavitù. L’unica salvezza per l’uomo è liberarsi dal tempo. Negare però il futuro è spegnere la speranza dell’Avvento. Per il cristiano, la ragione, illuminata dalla fede che spera, apre il cuore ad accogliere il mistero della trascendenza. Sant’Agostino afferma: Fides quaerens intellectum; intellectum quaerens fidem. La ragione, attraverso la libertà di coscienza, si apre al mistero e accoglie la rivelazione di Dio che si svela al compiersi del suo Avvento. Questo Dio si chiama Emmanuele, cioè “Dio-con-noi”.

Il concilio Vaticano II ha dato, e speriamo che continui a donare, gli orientamenti di dialogo tra la Chiesa e il mondo attraverso le varie matrici culturali e le diverse fedi. Terreno comune d’incontro sono i valori fondamentali delle culture: la libertà e la dignità della persona umana, il rispetto dei diritti, le leggi della giustizia, il rifiuto delle oppressioni, degli sfruttamenti e delle discriminazioni. Non parliamo poi del senso della storia, della laicità, della qualità del vivere bene e poi del fondamento di ogni rapporto umano costruito sulla fraternità attraverso la concordia che genera la pace. Soltanto l’armonia del dialogo rende fecondi i giardini in cui germinano e fruttificano gli incontri tra fede e cultura.  Aiutati e illuminati dalla trasparente e sempre contemporanea fede dei Padri della Chiesa, il mite clima d’Avvento ci fa mistagogicamente comprendere la qualità della nostra fede da vivere nel quotidiano.

Alla luce del Vangelo, i Padri ci conducono a vivere l’Incarnazione non come solo ricordo della nascita nella carne del Figlio di Dio, facendolo così rimanere sempre bambino, ma illuminandolo col fulgore della Risurrezione pasquale, cioè, la Pasqua del Natale di Cristo. Vigilare è invito ad andare incontro a Colui che è venuto, che verrà e che continua a venire in un restare dolcissimo come dono di sé che abbraccia passato, presente e futuro. Vegliare, discernere e tenersi pronti conducono il credente a vivere il sublime dinamismo del “già” e “non ancora” che è anticipazione e pregustazione della gloria futura. Il credente, dal cuore sveglio e attento, sa che l’Atteso, Gesù di Nazareth morto e risorto, tornerà all’improvviso perché a nessuno è dato conoscere il giorno e l’ora della sua venuta. Il tempo dunque non è soltanto lo scorrere inarrestabile nel quale la vita nasce, fiorisce e si consuma senza un fine, il tempo è dono e grazia che offre la possibilità di crescere in Gesù Cristo nell’attesa della sua venuta alla fine dei tempi.

Nutriamo la speranza che il virus dell’agonia culturale non sia anche virus dell’agonia ecclesiale. Bisogna evangelizzare le culture con le armonie della concordia che sono doni dello Spirito. Quando nella vita della Chiesa viene a mancare la profezia dello Spirito, il gioco delle apparenze, che ne occultano la babele di confusione e il baccano del disorientamento, distrugge la vitalità interiore, la dinamica verso il futuro e la stessa credibilità per cui la Chiesa è stata inviata nel Giorno radioso e splendido della Pentecoste. La luce della fede, accesa dal fuoco della speranza, ci fa credere che lo Spirito non cessa mai di svolgere la sua azione silenziosa nel segreto delle coscienze, predisponendo gli animi ad accogliere l’annunzio della salvezza in Cristo morto e risorto. Soltanto lo Spirito saprà rendere fecondi i nostri sforzi, anche quando essi potrebbero apparire umanamente destinati al fallimento. Bisogna vivere nel coraggio della speranza perché l’effusione dello Spirito soccorre e scioglie sempre ogni residua babele.

Giuseppe Liberto

LA LUCE DELLA PAROLA IN CANTO

Esiste un grande divario tra la sapienza umana, come filosofia pratica dell’esistenza, e la sapienza cristiana come capacità di percezione di Dio, della propria esistenza e di quella dei fratelli in umanità. Quando la vita è defraudata del suo “mistero”, diventa importante solo ciò che si vede, si sente e si sperimenta, per cui l’uomo è identificato come istinto di piacere, di possesso e di autoaffermazione. Il sublime mistero divino che sta “oltre”, è dimenticato e quasi emarginato, così l’uomo diventa “individuo” concentrato soltanto su di sé e non “persona” che vive in relazione col suo Creatore, con se stesso e con gli altri. In tal modo, scompare l’uomo come “persona” e diventa una cosa tra le altre cose senza memoria e senza profezia. Il presente e il futuro non sono ritenuti affidabili alla Parola di Dio o all’attesa di una speranza-certezza di gloria e beatitudine eterna ma vagano nella disperanza del vacuo e dell’ignoto. Il mistero di Dio è l’esperienza di un “affetto” che dona senso profondo all’esistenza umana. Mancando la divina radice in cui s’innesta l’esistenza, la sola sapienza umana sarà soltanto luce senza splendore, buio senza orientamento, parola senza incanto.

Dove la Parola si fa canto, la fede si fa incanto.Il gesto del cantare è proprio dell’uomo che sta al centro ed è il vertice della creazione. A differenza degli altri esseri viventi, soltanto la creatura umana canta la parola. L’uomo è somaticamente predisposto a parlare come a cantare, lo strumento è in lui, direi quasi, è lui. Il corpo dell’uomo, infatti, in certo modo, è strumento musicale i cui elementi sono: l’addome, i polmoni, le corde vocali, la bocca. L’arcata verbo-melodica, che inizia sin dai primi vagiti, va verso il parlato e si dispiega in canto modulato, coinvolgendo la realtà psicosomatica della persona. E poi, per cantare, più che per parlare, sono necessarie diverse realtà: abbondanza di respiro, coordinamento di muscoli facciali e addominali, impostazione della bocca, trattamento specifico delle corde vocali, euritmia del corpo, ricchezza di espressione, sensibilità artistica, intuito interpretativo. L’uomo, fisicamente e psichicamente, è dunque strutturato in modo tale da esprimersi attraverso la parola e il canto o, meglio, la parola che si esalta nel canto, armonizzando spirito e corpo e comunicando tutta la molteplice gamma dei sentimenti.

Cicerone, a riguardo, offrendoci la più bella e sintetica definizione della “cantabilità” della parola, dice che il canto è insito nel linguaggio come un embrione: Est autem in dicendo etiam quidam cantus obscurior (Orator XVIII,57). Nella parola parlata, infatti, vive quel canto piuttosto indefinito quando le parole sono pronunziate con la massima intensità espressiva. Da qui nasce la magica formula chiamata casmes, in-cantum, cioè, quel “cantar dentro” che è, appunto, “incantesimo” della parola! Quest’incantesimo raggiunge il suo vertice quando si ama in entusiasmo. In effetti, canto e amore convivono in duetto di mirabile simbiosi. Il canto è raffinatissima ed elevata espressione d’amore tanto da far dire a sant’Agostino: Cantare amantis est! Questa sinfonica comunione ha origine e inesausta sorgente in Dio che si è rivelato a noi come Amore e Amore donato! Quest’Amore eterno e infinito è stato riversato nei nostri cuori rendendoci capaci di cantare all’Amore, amando! E’ questo lo spirito di un genuino affectus fedei che anima il canto del credente.

Il libro della Genesi narra che Adamo, messo davanti alla creazione, impose il nome a ogni vivente. Solo quando si trovò di fronte al sublime dono della sua donna, esplose in entusiasmo e innalzò il primo cantico d’amore: Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta (Gn 2,23). Il cantare diventa, così, eccedenza del puro parlare, espressione di stupore ed esaltazione d’intima gioia.

Nella vita del credente, l’esigenza del canto sgorga dalla pienezza del cuore e dall’esperienza di fede amata e vissuta. Cantare il Mistero è espressione viva di entusiasmo interiore che accende il cuore e dà voce alla profezia e alla lode, alla gratitudine e alla meraviglia, alla gioia e al dolore, alla supplica e al pentimento, all’estasi e alla contemplazione. L’uomo biblico, che fa esperienza di Dio, è sempre creatura entusiasta perché è capace d’amare: dal canto d’amore di Adamo all’Amen dei redenti nell’Apocalisse, dall’appassionata difesa di Dio da parte di Mosè e dei profeti al Magnificat di Maria, dai duetti d’amore di Lui e Lei del Cantico dei Cantici all’ebbrezza della Chiesa a Pentecoste, tutto è un oceano melodico di purissima lode e gratitudine d’amore.

Le sante Scritture ci tramandano che Gesù, assieme agli apostoli, cantò i salmi tradizionali della Cena pasquale: Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi (Mt 26,30). San Luca, negli Atti degli Apostoli, ci riferisce che Paolo e Sila, mentre erano in prigione, verso mezzanotte, in preghiera, cantavano inni a Dio, mentre i prigionieri stavano ad ascoltarli (16,25). San Paolo inserisce il canto spirituale all’interno delle catechesi tipicamente battesimali e lo fa sgorgare da quel cuore in cui s’incarna in abbondanza la parola di Dio: La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente; ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza, cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali (Col 3,16). Non sappiamo con chiarezza a quale genere musicale appartenessero gli psalmòi, gl’hymnoi e gli odài. Sicuramente indicavano quelle forme vocali espressive che allora erano usate. Potrebbero anche significare, a parer mio, la ricchezza e la varietà dei diversi generi musicali all’interno della molteplicità delle culture. San Paolo ci tramanda che la parola di Dio, accolta nella profondità del cuore, portava i suoi frutti in tutti i membri della comunità, attraverso l’edificazione reciproca raggiungendo la sua forma particolare nel canto comunitario che non si riduce a un’espressione artistica qualsiasi ma a quel canto ”spirituale” che caratterizza sia la preghiera sia la stessa comunità orante. Il termine “spirituale” non equivale a un generico “sacrale” di tipo pagano, ma definisce la particolare esperienza dello Spirito che i battezzati hanno in dono di vivere. Anche la parola “cuore” non va letta in senso psicologico-sentimentale ma esprime il centro profondo nel quale l’uomo si determina alla conoscenza e alla decisione ed è il luogo in cui lo Spirito raggiunge l’uomo. In forza di questa epiclesi, l’estetica del generico canto “sacro” si trasfigura in teologico canto “santo”. Il Credo che sgorga dal cuore, fiorisce sulla bocca col canto che è professione di fede testimoniata nell’incanto di un amore donato, accolto e ridonato. Alla Parola non può mancare la voce: è questo il canto della fede! Dove la Parola si fa canto, la fede si fa incanto.

Giuseppe Liberto