GLI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

Il 29 giugno è festa dell’apostolicità della Chiesa: Pietro, fondamento della fede cristiana, è forza e speranza nella missione dell’apostolo/chiesa. Paolo, annunziatore del vangelo nella missione salvifica universale, è fondamento e fiducia nella fede dell’apostolo/chiesa.

Pietro e Paolo, messaggeri del vangelo, testimoni e martiri del Signore, sono, come ci fa cantare l’antifona d’Ingresso, “i santi apostoli che nella vita terrena hanno fecondato la Chiesa, con il loro sangue, hanno bevuto il calice del Signore e sono diventati gli amici di Dio”. La loro vita e la loro missione si sono configurate al mistero supremo di Cristo, crocifisso-risorto. Il loro martirio è il sigillo ultimo di un amore senza limiti.

Le tre metafore del primato di Pietro

La Chiesa di Cristo non è massa indistinta di fedeli anonimi, isolati e dispersi ma comunità ecclesiale fondata sulla “roccia Cristo” che è sempre presente in mezzo ai suoi. Cristo sceglie Pietro col compito di unificare e sostenere l’unica sua Chiesa. L’evangelista Matteo ci offre tre illuminanti metafore che mettono in risalto il primato di Pietro: la roccia, le chiavi, il legare-sciogliere (cf Mt 16,13-20).

– “La roccia”, dal nome aramaico “kefa”, è il termine con cui Cristo rinomina Simone chiamandolo Pietro e gli affida la sua missione. Nel mondo semitico, cambiare nome significa orientare la persona verso un altro destino. Pietro è la “roccia” che tiene salda la Chiesa. Su questa roccia il Cristo, “pietra angolare” insostituibile, getta le basi dell’edificio-Chiesa, segno visibile di Cristo che è la vera roccia perché è l’unico mediatore che costruisce la “sua Chiesa”. Pietro e gli apostoli sono le “fondamenta” (cf Ef 2,20).

– “Le chiavi” sono il segno del governo e della responsabilità di una casa. Pietro diventa, non il fondatore o il proprietario, ma il vicario e il fiduciario della Chiesa. Egli è segno di Cristo vero capo e unico pastore della comunità messianica.

– “Legare e sciogliere”, proibire e permettere, separare e perdonare: Pietro ha tutte le prerogative che si leggono nella Bibbia e che sono attribuite al Messia. Gesù stabilisce nella Chiesa un’autorità che ha origine e destino divino. Pietro, insieme agli altri apostoli, è costituito interprete autorizzato della legge divina, guida all’amore e alla giustizia nelle decisioni storiche. La missione che riceve da Cristo, Pietro non la eserciterà come monarca o, peggio, despota di un potere-dominio ma come fedele servizio alla fede e all’amore per l’unità della stessa Chiesa. Pietro dovrà rendere alla comunità questo servizio.

Alle due domande d’amore e di fede che Gesù gli rivolge, Pietro dà due risposte di amore e di fede, da cui scaturisce il mandato.

Domanda: Mi ami tu? Risposta: Tu sai che io ti amo. Consegna: Pasci le mie pecorelle.

Domanda: Chi dice la gente chi io sia? Risposta: Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivo.

Consegna: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa.

La triplice domanda d’amore rimanda al triplice rinnegamento in quella notte del tradimento.

– Pasci le mie pecorelle. Gesù è il Pastore per eccellenza. Innanzi tutto perché le pecore gli appartengono, poi perché le conosce singolarmente. Questa conoscenza è reciproca ed è così intima che Gesù la paragona a quella che unisce Lui al Padre. Il motivo profondo sta nel fatto che egli offre la vita per il suo gregge. Gesù è il vero Pastore che conduce e riunisce il suo gregge per fare un solo ovile sotto un solo pastore(cf Gv 10,11-18). Nella vita della Chiesa, Pietro diventa il responsabile visibile dell’unità del gregge di Cristo.

– Tu sei Pietro. Il fondamento per cui Pietro è la “roccia” sulla quale è costruita la Chiesa di Cristo, poggia sulla confessione di fede che l’Apostolo ha fatto per primo a nome del gruppo degli apostoli: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16). Pietro, da solo, sarebbe stato incapace di percepire e riconosce con assoluta chiarezza Cristo Figlio di Dio e Messia. Questa percezione è solo dono del Padre. L’amore fedele e la fede ricolma d’amore lo condurranno al martirio. Nel mandato e nel martirio, Pietro manifesta l’amore di Gesù verso i discepoli e verso quelli che, attraverso la loro parola, crederanno in lui.

Le quattro metafore della vocazione di Paolo

Giunto al termine della sua vita, Paolo, scrive al suo fedele Timoteo, responsabile delle comunità ecclesiali dell’Asia minore, sullo stile di vita che devono avere le comunità cristiane. Nel discorso d’addio, Paolo si presenta come modello di apostolo e di pastore. La sua opera è realizzata grazie alla presenza efficace del Signore che lo ha reso apostolo predicatore del vangelo a tutte le genti, liberandolo da ogni pericolo di morte.

Per illuminare il suo itinerario apostolico, Paolo usa quattro metafore.

La prima richiama l’immagine della libagione: come il vino, che versato sul braciere, esala verso l’alto tutta la sua fragranza, così tutta la sua vita deve salire verso il suo Signore.

La seconda, la navigazione di cui Paolo si servì come mezzo di evangelizzazione: “E’ giunto il momento di sciogliere le vele”. È il momento in cui si chiude la sua vita terrena.

La terza, quella militare, allude alle tante battaglie combattute nel corso del suo ministero. Dopo le aspre lotte, le terribili persecuzioni e i vivaci confronti, Paolo ora raggiunge la serenità dell’incontro col suo Signore.

La quarta è metafora sportiva. Terminata la corsa, come ogni atleta giunto alla vittoria, anche lui raggiunge la “corona di giustizia”. Paolo contempla il suo domani con la ferma speranza che Gesù lo libererà per sempre dal potere delle tenebre.

La gioia di essere Chiesa apostolica, una-santa-cattolica, è quella di costruire una comunità di credenti capace di cantare la fede radicata nella speranza e vissuta nell’infaticabile spirito di carità. Possiamo comprendere il mistero della Chiesa se entriamo nella stessa esperienza degli apostoli. Essi furono testimoni della morte e risurrezione di Cristo perché veri discepoli del Maestro: nel condividere il dramma della croce vissero la fecondità della risurrezione.

Giuseppe Liberto

BELLEZZA COME CONCORDIA TRA ESTETICA E TEOFANIA

Nella narrazione della creazione torna sempre in crescendo il ritornello: Dio vide che era cosa buona. Dio canta, infatti, ogni volta che contempla la sua opera creata. Tutto ciò che il Verbo divino crea è buono e bello, splendido e meraviglioso. Di giorno in giorno, di opera in opera, risuona felicemente lo stupore del Creatore per i capolavori che escono dalle sue sapienti dita. Nell’universo, il capolavoro dei capolavori è la creatura umana: maschio e femmina li creò. Qui la sorpresa è espressa dal rafforzativo: Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona (cf Gen 1,3-31).L’uomo e la donna sono creature uniche perché sublime riflesso del Creatore. Dio vede tutto ciò che ha creato e contemplandolo lo vede bello e buono. Il suo sguardo d’amore, che rende bella e buona ogni cosa, è la causa della bellezza e della bontà creata! Contemplare amando, è il modo proprio con cui Dio vede l’uomo e il cosmo. Anche l’uomo, creato a immagine e somiglianza del suo Creatore, contempla, s’incanta e col salmista canta: Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? (Sal 8,4-5). Ogni sguardo di bellezza coincide sempre con la visione contemplativa del cuore estasiato, ammirato e grato. La bellezza scaturisce sempre da una singolare capacità di sguardo d’amore. Ricercare la bellezza di spirito e di corpo è gesto tipicamente teologico. Visione e ascolto sono così armonizzati in concordia tra estetica e teofania. In effetti, non avere capacità di ammirare e gustare il bello e il buono è uno dei sintomi più mortificanti di mediocrità e di superficialità.

Bisogna evitare qualsiasi tipo di banalità perché il banale non è un fatto culturale ma strumento pericoloso per diseducare. Attratti da certe pratiche approssimative o dalle fumose teorie dei mercanti d’illusioni e degli strilloni del baraccone esoterico, la bellezza e la bontà non sono più sublimi espressioni della dignità umana. La bellezza è sguardo d’amore. A Caino mancava lo sguardo d’amore e per questo cantava offertori a Dio non graditi.Nella bellezza c’è tutto il peso dell’amore che costruisce l’uomo interiore; c’è la ricerca della verità che crea bontà. La bellezza è aurora di luce e fascino di visione. Senza bellezza tutto si atrofizza nell’inespressività infeconda e nella banalità innaturale e distruttiva. La bellezza è la sola creatura capace di rendere epifanico l’invisibile Mistero senza profanarlo, appare come il luogo della rivelazione di Dio e della verità sull’uomo. La vera bellezza è l’espressione di trasformazione dell’uomo che vive la sublime esperienza dell’ineffabilità di Dio.

Il Dio di Cristo Creatore e Padre è Bellezza, Verità e Bontà. Il Logos creatore è inizio in cui bellezza e bontà si armonizzano. La bellezza si fa incontro tra Dio e l’uomo facendone il luogo privilegiato del bello e del buono che ci danno la capacità di avvicinarci al trascendente per contemplare Dio Trinità. San Tommaso nella Summa Theologiae esprime il mistero di Dio con “quattro trascendentali”:tra unità, verità e bontà c’è la via pulcritudinis che permette di fare un discorso su Dio, armonizzando i tre fattori che strutturano la bellezza in sé. Con il fiat lux ebbe origine l’ordine in bellezza che dal caos si trasformò in cosmos. Dio crea e ricrea mediante la perfezione unitaria delle diversità che è bellezza in splendore. Essa è innanzitutto l’espressione formale che è compiutezza di ciò che si vuole creare. La bellezza trova pieno compimento nella perfezione della forma come bellezza perfetta espressiva e compiuta. L’itinerario non è l’inconcludenza e tanto meno la devianza di una bellezza approssimativa.

Se la luce della Genesi fa vedere la bellezza e la bontà del creato, la luce taborica di Cristo trasfigurato è perfetta armonia dell’incontro tra cielo e terra che lascia un tale stupore e meraviglia da far esclamare a Pietro: È bello per noi stare qui (Mt 17,4). La luce in splendore del Tabor non è solo visione, ma anche incontro con il Logos Fos. Quest’armonia è concordanza tra il momento estetico e il momento teofanico. Dio non è soltanto suprema e assoluta Bellezza è anche l’armonia della Verità che si rivela e si dona nella concordia della Carità. L’armonia, infatti, è concordanza tra le diversità nell’unità in dignità e validità. “Cuore” e “mente” in armonia tra fine pastorale e ragioni dottrinali. La bellezza che fiorisce, fruttifica nei giardini della mente e del cuore ed è visione-ascolto contemplante. L’artista musico, con il logos-melos esprime ciò che promana dall’abbondanza del cuore e lo ri-dice con la tecnica sonora verbo-melodica. O Logos Sarx egheneto: Il Verbo è Immagine del Padre, nell’Immagine era la vita e la vita era la luce degli uomini. L’Immagine venne nel mondo per restaurare definitivamente gli uomini creati a immagine del Verbo. Ilario nel De Trinitate afferma che tre cose fanno la bellezza: “integrità” ovvero perfezione, “proporzione” ovvero consonanza, “chiarezza” ovvero luminosità.

Nella divina Liturgia, la bellezza è elemento necessario e integrante. Le arti entrano nell’azione liturgica come espressione dell’intelligenza umana. Esse non sono soltanto opere per coprire spazi e silenzi, e neppure per dare solennità mal comprese o atmosfere cosiddette toccanti. Nell’azione liturgica, le arti sono mezzi umani espressivi per rivelare i Misteri che i credenti celebrano. Nella liturgia diventa “significante” a livello sacramentale quello che è “significativo” a livello umano, altrimenti si cade nel puro formalismo o nel semplice ritualismo. Il gesto umano è sacramento della rivelazione dell’azione di Dio che dice e opera attraverso l’azione dell’uomo. Quante volte la “sacra coreografia” prende il posto della “santa sacramentalità!” Quante volte il modo anonimo di “dire” la Prece Eucaristica, più che Anafora sembra “catafora!”. Nella liturgia, la nobile semplicità e la gustosa bellezza sono irradiazione di una raggiunta verità. Il canto della lode sarà eterno e perfetto nei cieli e costituirà la piena gioia degli eletti.

Nel Paradiso, Dante intona l’inno di gloria alla Trinità divina. Il sorriso d’immenso gaudio di tutta la creazione, nella luminosa concezione dantesca, s’illumina in intensità, diventando splendore in quel Gloria trinitario posto al centro della mirabile terzina dalla solita, altissima sensibilità artistico-teologica del poeta:

Al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo

Cominciò “gloria!” tutto il Paradiso,

Sì che m’inebriava il dolce canto.

Ciò ch’io vedeva, mi sembrava un riso

Dell’universo; per che mia ebbrezza

Entrava per l’udire e per lo viso.

(Canto XXVII, 1-6)

L’inno trinitario, cantato dal coro innumerevole dei celesti, fu portato in terra da Cristo, Logos Melos, che, «prendendo la natura umana, introdusse in questa terra d’esilio, quell’inno che viene cantato da tutta l’eternità nelle sedi celesti» (SC 83). Sull’esempio del Verbo Incarnato, la Chiesa, suo Corpo e sua Sposa, risponde con la Divina Liturgia incentrata nell’Eucaristia e dilatata, nel fluire del tempo, dalla Liturgia delle Ore. Te decet laus! Tibi silentium laus! Ogni tensione di canto dossologico che scaturisce dal silenzio-stupore dell’incontro con l’ineffabilità del Mistero trinitario, trova il suo acquietarsi nel silenzio-estasi d’amore. È l’esperienza di santa Elisabetta della Trinità: «È l’amore schiacciato dalla bellezza, dalla forza, dalla grandezza immensa dell’oggetto amato, che cade in una specie di deliquio, in un silenzio pieno e profondo. Il silenzio di cui parla David quando esclama: Tibi silentium laus. Sì, è la lode più bella perché quella che si canta nel grembo della Trinità» (Scritti. Ultimo ritiro 8° giorno,Roma 1967).

Giuseppe Liberto

IL VOLTO DELL’AMORE

La rivelazione dell’Amore divino in volto umano, secondo l’enciclica Haurietis aquas, è l’essenza della devozione al Sacro Cuore. Il Vangelo è il racconto della teofania in cui il fuoco, il tuono e il lampo sono segni della rivelazione del volto umano di Cristo che chiama Dio, Padre suo. Il testo di questo inno vuole esprimere il mistero d’amore del Padre riversato nel cuore del Figlio suo Gesù.

Nella prima strofa, Gesù ci rivela l’Amore fedele ed eterno di Dio: “Ti ho amato di amore eterno, per questo continuo a esserti fedele” (Ger 31, 3). San Paolo, scrivendo agli Efesini, dice che Dio, nel suo grande amore, “ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo secondo un disegno d’amore della sua volontà” (1, 4-5). La continuità dell’amorosa figliolanza divina, infatti, non è logorata dallo scorrere del tempo. Anche il salmista prega usando immagini di accorata delicatezza: “Custodiscimi come pupilla degli occhi, all’ombra delle tue ali nascondimi” (Sal 17, 8).Neppure il peccato è capace di scuotere la fedeltà dell’amore divino: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore… Non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe… perché egli sa bene di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere” (Sal 104, 8.10.14). La prova più forte che Dio ci ama è che Cristo è morto per noi: “Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo” (Ef 2, 4) e così, grazie a questo infinito amore, tutti siamo stati salvati. Con toni di tenerezza, Isaia s’interroga: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai” (49, 15). “Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto (54, 10).

La seconda strofa dell’inno, collegandosi all’immagine biblica di Yahvé, canta l’amore geloso di Dio, Sposo d’Israele. La gelosia del Signore esige una risposta di fedeltà al suo amore fedele.Se egli perdona il peccatore, non viene a patti con il peccato, perché il Dio geloso è Fuoco divoranteche brucia ogni scoria d’impurità (cf Dt 4, 24). Cristo è lo Sposo che chiede a ogni anima la fragranza verginale (cf 2Cor 11, 2), la vigilanza premurosa (cf Mt 25, 1ss), l’attività d’irradiazione instancabile (cf 2Cor 5, 14). San Paolo, indicando la vera via per la salvezza cristiana, apre il proprio cuore ai Filippesi e scrive loro: “Non ho certo raggiunto la meta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù” (3, 12). Il fuoco dell’amore di Cristo si è acceso sulla terra e ci ha “ghermiti” perché, afferma Papini, è un “implacabile Amore”.

La terza strofa conferma la verità che l’amore divino non è sterile. Israele, come slancio per il ricordo dei benefici che il Signore gli ha concesso, nella grande litania di ringraziamento del grande Hallel del salmo 136, canta in entusiasmo il ritornello: “perché il tuo amore è per sempre”. Tutti i benefici di Dio, infatti, si riassumono in Gesù. San Paolo, nella lettera ai Romani, lo conferma con decisione: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?” (Rm 8, 32). L’amore di Dio nel Cristo, dunque, ci ha donato la vita eterna che vince la morte nella risurrezione. Ci ha dato la pace e la riconciliazione universale (cf Ef 2, 14-17); una pace diversa da quella che offre il mondo (cf Gv 14, 27), e superiore a ogni esperienza umana (cf Fil 4, 7). Dio in Cristo ci ha offerto anche la luce che guida il nostro cammino perché è Gesù la Luce vera del mondo: “Io sono la luce del mondo; chi segue me, non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8,12).

Quando Tommaso interrogò il Maestro e gli disse: “Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?”, Gesù gli rispose: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14, 5-6).

In Gesù, tutto ci è stato donato, perché è Lui il Dono di Dio da conoscere e da accogliere. È Lui, infatti, la Via sicura che conduce alla piena Verità che ci dona la vera Vita. *

Giuseppe Liberto

* Rielaborazione del testo di A. Rizzi (cf Bollettino ceciliano, giugno 1963)

EUCARISTIA CIBO DI VITA ETERNA

Alla vigilia della sua morte, Gesù, in sua memoria, non lasciò né reliquie né messaggi scritti ma consegnò ai suoi discepoli, e tramite loro a tutta l’umanità, il suo Corpo donato e il suo Sangue versato nel Santo Sacramento del Convito pasquale. L’antica pasqua ebraica era colma di ricordi. Essa, infatti, celebrava e ravvivava l’evento della liberazione e il patto dell’alleanza, il cammino nel deserto e l’ingresso nella terra promessa. Questi eventi troveranno la loro pienezza nella nuova Pasqua: il sacrificio della Croce e la gloria della Risurrezione. Nell’ultima Cena, Gesù sostituisce se stesso come contenuto e ragione della Pasqua. Egli è l’Agnello che si deve consumare e il suo sangue che sta per versare, sancisce la Nuova Alleanza: il Servo sofferente è il Figlio amatissimo del Padre.

Gesù disse di se stesso, come persona, di essere la manna venuta dal cielo da assumere mediante la fede. In particolare lo confermò del suo corpo e del suo sangue (cf Gv  6, 26-51). Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: “Come può costui darci la sua carne da mangiare”? (Gv 6, 52). Si possono colpevolizzare i giudei di avere mormorato e di essersi litigati? A una simile proposta, bisogna riconoscere che anche nei credenti si risvegliano mormorii che solo la grazia di Dio può vincere.

Ascoltare Gesù è dunque mangiare un Pane venuto dall’alto e con esso saziare la fame che sgorga dal profondo del nostro cuore. La vita eterna non è, come insegna Platone, sopravvivenza dello spirito ma, come afferma Gesù, risurrezione della nostra interezza umana e ingresso definitivo nella vita stessa di Dio. Il “Cibo di vita eterna” è disponibile soltanto per chi ha quella fede che, grazie allo Spirito che vivifica, è capace di superare lo scandalo della croce. Il paradosso delle opere di Dio non inizia dalla Santa Eucaristia, ma vi finisce e vi si ricapitola perché essa è l’estrema prova d’amore con cui Dio ha amato il mondo.  La Divina Eucaristia è la presenza reale fra noi di Dio Verbo fatto carne della nostra umana natura per opera dello Spirito. E’ il massimo segno e il pegno sublime d’amore del Cristo verso la sua Chiesa, segno e pegno consegnato nell’ultima Cena come perpetua memoria di Lui.

Un Prefazio della Messa così canta: «Sacerdote vero ed eterno, egli istituì il rito del sacrificio perenne; a te, o Padre, si offrì vittima di salvezza e comandò a noi di perpetuare l’offerta in sua memoria». Cristo, dunque, si offrì, una volta per sempre, come oblazione che redime l’umanità intera. Sulla croce dà inizio alla nuova storia dell’amore che si perpetua nell’Eucaristia celebrata dalla Chiesa. Nel rivivere la Passione, si accende in noi la speranza della Risurrezione. Non è possibile risorgere se non passando per la via crucis di Cristo. L’Eucaristia ci assimila a Cristo paziente per configurarci al Cristo glorioso e fonda quest’unità di vita in attesa della risurrezione nell’ultimo giorno.

Scrive san Giovanni Damasceno: «L’Eucaristia è vera comunione perché noi per essa siamo uniti a Cristo partecipando alla sua carne e divinità. Ancora è comunione perché noi per essa siamo uniti tra noi…membra gli uni degli altri diventiamo concorporei di Cristo» (De fide orthodoxsa, IV, 14).L’Eucaristia, dunque, è segno efficace dell’unità e dell’amore della Chiesa: la moltitudine dei credenti diventa un solo corpo. La Chiesa sarà sacramento della presenza di Cristo se questa moltitudine, vivendo la carità, formerà un corpo solo. Canta ancora un altro Prefazio: «In questo grande mistero tu nutri e santifichi i tuoi fedeli, perché una sola fede illumini e una sola carità riunisca l’umanità diffusa su tutta la terra». La Chiesa non è stata istituita per fare spettacolo con la tentazione di darsi una visibilità non autentica dinanzi al mondo, ma per realizzare il volere di Cristo. Lo show, parola inglese usata da Newman, indica tutto ciò che si orna di colore e di movimento per attrarre e sedurre. Newman afferma, infatti, che l’azione della Chiesa consiste nel salvare l’uomo dalla sua miseria: questa è la missione che deve identificarla. C’è, dunque, il pericolo di fare della celebrazione eucaristica, una sorta di “cosa sacra”, un “gesto magico”, una “sceneggiata religiosa”: niente di più pericoloso! E’ l’Agnello di Dio in persona, è lo Spirito personale del Padre e del Figlio che ci sono dati. Come figli di Dio, nutrendoci della Parola e del Pane di Vita, formiamo «un cuor solo e un’anima sola»: Chiesa di Dio, Chiesa di santi! Non quindi celebrazione eucaristia su nostra misura, come elogio della nostra fraternità, ma come sacrificio di Cristo che redime, che ottiene “benefici nella vita presente” e ci conferma “nella speranza dei beni futuri”.

San Paolo annunzia la grande verità della Chiesa come comunione intima e profonda con Cristo e in Cristo tra i fedeli cristiani. Attraverso la partecipazione all’Eucaristia si stabilisce una comunità misteriosa di vita donata dallo Spirito Santo che trasfigura il Capo e anche le membra. Il Verbo fatto carne è l’unico Pane e, cibandoci soltanto di lui, siamo trasformati in un solo corpo che è appunto la sua Chiesa. (cf 1Cor 10, 16-17).

Nella comunità cristiana le divisioni sono sempre indice di una sorta di prevalenza di se stessi su Gesù Cristo. E’ solo Lui che fa la Chiesa! Quando questa certezza, che nessuno in teoria contesta, diventa modo pratico di agire, allora appare impellente il bisogno dell’unità, che non è sterile uniformità. Unità che vince le discordie e promuove i carismi in vista della ricchezza della comunione. Con la partecipazione all’Eucaristia siamo costituiti in unità dallo Spirito del Padre e di Gesù Cristo, e pertanto siamo edificati come Chiesa della Trinità. La luce che la Chiesa fa scendere sul mondo viene dall’unità concorde che la dispone alla conversione e all’amore verso tutti. La Chiesa luminosa è punto di riferimento del mondo, e per questo deve meravigliare il mondo proprio per la sua luce di verità nella carità. Il Dio che invia il Figlio come Parola e Pane di vita è lo stesso Dio che suscita quella fame che rende capaci di desiderarlo e di accoglierlo.

Sorge spontanea la domanda: La celebrazione della Divina Eucaristia può essere usata per rivendicare differenze e attestare divisioni? Può esistere vera comunione ecclesiale nel rifiuto della comunione eucaristica? La Fractio Panis può essere motivo di fratture ecclesiali? San Paolo è drammaticamente chiaro quando afferma: Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane (1Cor 10,16-17). Da sant’Agostino a Henri de Lubac, tutta la vera tradizione afferma costantemente che «la Chiesa fa l’Eucaristia e l’Eucaristia fa la Chiesa». Come dissociare il Corpo Eucaristico dal Corpo Ecclesiale?

Nella seconda epiclesi della II Preghiera eucaristica, l’invocazione dello Spirito sul pane e sul vino è rinnovata a favore della Chiesa. Prima del racconto dell’Istituzione, il celebrante chiede al Padre: «Santifica questi doni con l’effusione del tuo Spirito». E poi, dopo l’Anamnesi e l’Offerta, invoca di nuovo: «Per la comunione al Corpo e al Sangue di Cristo lo Spirito Santo ci riunisca in solo corpo». Queste due epiclesi della Preghiera eucaristica II provengono da Ippolito di Roma (225 c.). Tutti i credenti in Cristo dovrebbero essere convinti che la divisione eucaristica può solo dividere la Chiesa. Se dunque l’Eucaristia è il sacramento dell’unità a noi donata, che è frutto dello Spirito Santo, chi non condivide il medesimo Pane, può parlare di un unico Corpo? E allora: chi non condivide il Verbum Domini e il Corpus Domini, può parlare di un medesimo Corpo? L’Eucaristia è il sacramento dell’unità a noi donata. Non è il frutto di una speculazione filosofica ma sublime presenza reale frutto dello Spirito Santo, Fuoco ardente dal quale la sua Fiamma s’irradia, si diffonde e divinizza.

Giuseppe Liberto

O CRISTO, PAROLA DI DIO

Il testo di quest’inno eucaristico, composto da Armido Rizzi, è quasi prolungamento della festa dell’Incarnazione. Gesù è cantato come Parola che vive in seno a Dio (cf Gv 1,1-18). Egli è il Verbo, la Persona di Cristo con cui il Padre si rivela, crea ogni cosa e la conserva. L’azione della Parola divina, che è Saggezza di Dio, armonizza l’efficacia irresistibile con la sapienza discreta che pone sul creato il sigillo dell’ordine, dell’ornamento e della bellezza (cf Pr 8,22 ss.; 1Cor 1,24). Il Logos onnipotente e sapiente, facendosi carne della nostra umana natura fragile, debole e mortale, tra fascino e dramma, entra nella storia dell’uomo.

Per esprimere la presenza di Cristo nel mondo, Giovanni usa una frase suggestiva: “venne ad abitare in mezzo a noi” (1,14), cioè, si è “accampato”, si è “attendato”. Questa parola ha una grande storia: durante i 40 anni di permanenza nel deserto e poi nella Terra promessa, Dio si rendeva presente al popolo d’Israele mediante l’arca che occupava una Tenda detta “Tenda della Riunione”, perché, proprio in questo luogo, il Signore dava l’appuntamento al suo popolo (cf Es 25,8). Dicendo che la Parola di Dio si è “accampata” tra gli uomini, Giovanni e tutta la santa Scrittura rivelano che ormai il Verbo fatto carne ha preso il posto dell’antica Tenda. Il Corpo di Cristo è il luogo della presenza di Dio in terra tra gli uomini. Nella pagina del Vangelo in cui Giovanni parla del Buon Pastore, Gesù annunzia chiaramente: “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (10,10). In Lui, infatti, abita corporalmente tutta la pienezza della divinità e da Lui si diffonde come da Fratello maggiore (cf Col 2,9; Gv 1,16; Rm 8,26).

Il dono della vita è sottoposto alla legge del passaggio attraverso la morte: “In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto (Gv 12,24). La Parola incarnata deve siglare la propria vita terrena con il segno della morte. Vinta la morte, dal cuore della terra esce risorto e glorioso (cf Fil 2,5-11) e così la sua nuova esistenza, sciolta dalle condizioni terrene, diventa per gli uomini dono universale in forma di Pane: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (Gv 6,51). Soltanto la forza prodigiosa di questo Pane potrà placare la fame dell’uomo: “Io sono il Pane di vita, chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!” (Gv 6,35). Lungo il pellegrinaggio terreno, il Pane celeste diventa in lui principio di vita: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me” (Gv 6,54-57).Il Pane di Cristo, dunque, è promessa di vita eterna perché, anche se il nostro corpo è gettato nella terra come seme mortale, risorgerà immortale e glorioso come il Cristo risorto, primizia della nuova umanità: “Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti…Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita” (1Cor 20,22).

Nell’atmosfera in cui la Verità divina illumina la tenebra umana, il Verbo Luce spalanca, dinanzi agli occhi accecati dei due discepoli di Emmaus, il Libro delle sante Scritture e le spiega, mentre apre la loro mente alla comprensione. In questo modo, Gesù compie due illuminazioni: una sul Libro della Parola di Dio e l’altra sulla mente dei discepoli per l’intelligenza di quella Parola che parla di Lui e che è Lui stesso.

L’ardere del cuore nella “Liturgia della Parola” prepara alla rivelazione dell’incontro con Lui nel gesto dello spezzare il pane per offrirlo ai commensali. È il momento in cui avviene il passaggio dall’incapacità di riconoscerlo al “si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero, ma Gesù sparì dalla loro vista (cf Lc 24, 13-35). Gesù sparì per rimanere con i suoi discepoli nel mistero della sua Chiesa sacramentale.

Nello stesso tempo, scompare anche l’abbattimento dello sconforto, la disperanza fondata sulla falsa idea di Messia, la sfiducia sulla testimonianza delle donne, e appare, sfolgorante, la fede certa che “Egli è vivente” ed è presente nei simboli sacramentali della Liturgia della Parola e del Pane spezzato all’interno della Chiesa apostolica, suo Corpo, sua Sposa: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni sino alla fine dei tempi” (Mt 28,20).

La situazione negativa della non-fede è legata al desiderio di voler trovare, toccare, vedere il corpo fisico di Gesù. Il passaggio alla fede richiede sempre di abbandonare questo desiderio che rinvia alla ricerca di un corpo morto, mentre si deve accettare d’incontrarlo nell’ascolto della Parola viva e nei segni sacramentali della sua Presenza mistica e reale. Nella Divina Liturgia, ascolto della Parola e frazione del Pane mettono in comunione col Risorto. Tra l’ascendit in coelum e l’iterum venturus est c’è la sua misteriosa presenza reale nelle due Mense della Fractio Verbi e della Fractio Panis che danno vita alla Ecclesia, suo Corpo mistico, sacramento della Presenza reale del Risorto.

Ogni preghiera di fede, nutrita dalla speranza, diventa così invocazione d’amore: “Mane nobiscum Domine, quoniam advesperascit!”. Nel sacramento dell’Eucaristia, il Signore entra per rimanere, in dolcissima intimità d’amore, con i suoi che lo accolgono nel Verbo che si fa Carne e nella Carne che si fa Cibo di Vita all’interno della Chiesa, suo Corpo e sua Sposa, che lo attende quando Egli verrà nella gloria.*

*Rielaborazione del testo di A. Rizzi. Cf. Bollettino ceciliano, marzo 1963

Giuseppe Liberto

GLORIA AL PADRE AL FIGLIO E ALLO SPIRITO

Nei Promessi Sposi di Manzoni, l’Innominato miscredente ma anche con profondo travaglio di coscienza, nel colloquio con il cardinal Federico Borromeo, così si espresse: “Dio, Dio, ma chi è questo Dio”? Anche se culture materialiste e gli stati atei hanno cercato sempre di cancellare il nome di Dio, anche loro dovrebbero chiedersi: Chi è questo misterioso “Inesistente”? Sappiamo bene che anche la scienza afferma che Dio esiste. Albert Einstein, fisico e filosofo tedesco, affermava che tra i tantissimi dubbi, ciò di cui era sicuro era l’esistenza di Dio. Anche Antonino Zichichi, fisico e divulgatore scientifico siciliano, affermava che non esiste un teorema che neghi l’esistenza di Dio, né un esperimento che dimostri la non esistenza di Dio. Dio è tutto, è qualcosa di infinitamente più grande della matematica e della scienza. Dio Creatore è l’Essere eterno sempre presente nel cosmo e nella storia. Tutto è stato creato dalle sue sapienti dita e tutto è posto nelle sue mani: Egli il Signore di tutto il creato.

Non basta credere che Dio esiste, bisogna conoscerlo nella forma con cui si svela e si rivela. Dio ama l’uomo! Si rivela e dona se stesso, unico e infinito tesoro di ricchezza e di felicità divina.La piena rivelazione e autodonazione della Trinità si ha nel Cristo mediante la comunione dello Spirito. Gesù è il dono più sublime dell’amore misericordioso di Dio al mondo finalizzato alla salvezza come passaggio dalla morte alla vita. Egli è l’interprete del Padre e il Figlio in cui l’umanità tutta è immersa nella trascendenza divina. Il Dio di Cristo è il Dio che s’incarna nella vita dell’uomo operando grandi cose. Di fronte all’Amore divino che si dona, si pongono o il rifiuto, e quindi la morte, o l’accoglienza, e perciò la vita. L’accoglienza di Dio Uno-Trino, l’Amante, l’Amato el’Amore, spalanca il nostro cuore all’adorazione, alla lode, al rendimento di grazie e alla supplica. L’uomo, nella misura in cui accoglie l’amore donato da Dio, impara ad amare e a donare quello stesso amore che è capace di trasfigurare il mondo e la storia.

Nel “Credo” professiamo la fede in un solo Dio che è Padre, Figlio e Spirito Santo. Anche se il Dio rivelato rimane pur sempre il Deus absconditus, soltanto Lui può rivelarci chi è in se stesso e chi è per l’uomo. Apparendo a Mosè sul monte Sinai, l’Inconoscibile svela il suo Nome: Io sono Colui che sono! (Es 3,14). Per Israele, YHWH non solo è l’unico Dio ma non ve n’è un altro. L’affermazione è fortissima perché dice non solo monolatria ma anche monoteismo. Quest’autorivelazione, attraverso i secoli, farà il cammino di pienezza che condurrà sino a Cristo. Il Dio dei Padri e dei Patriarchi, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, è il Dio Uno-Trino. È il Dio che ha inviato nel mondo il suo Figlio unigenito. Quel “Dio ignoto”, al quale gli ateniesi avevano innalzato un altare (cf At 17,23), si fa conoscere nell’auto-rivelazione e nell’auto-donazione del Figlio Gesù. La vita divina che si rivela e si dona è il mistero ineffabile della vita trinitaria.

Non conosciamo altro Dio, se non il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe (Mt 22,32), il Dio del Signore nostro Gesù Cristo (Ef 1,17). Tramite Gesù, lo incontriamo facendo esperienza della sua tenerezza di Padre, perciò non siamo né padroni né schiavi ma figli nel Figlio per opera dello Spirito! San Giovanni ci ricorda che il mistero rivelato in Gesù è mistero di amore perché: Dio è Amore (1Gv 4,8), non solo Amore in sé stesso, ma anche Amore per noi: Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna (Gv 3,16). Dio è Amore come mutua donazione: il Padre dona al Figlio il suo identico essere sostanziale, lo Spirito Santo riceve dal Padre e dal Figlio la loro pienezza di Vita, il Figlio è del Padre perché da Lui è generato, a Lui si dona, in Lui eternamente rimane. Lo Spirito Santo è del Padre e del Figlio perché da loro procede e in loro eternamente rimane. L’Amore trinitario è dunque amore rivelato e donato all’umanità nel Figlio per mezzo dello Spirito. In questo eterno processo d’Amore gratuito e fedele, noi viviamo all’interno della rivelazione della Trinità come storia d’Amore in se stesso e come storia d’Amore riversato nell’uomo: Dio in Cristo è pienamente Emmanuele, il Dio-con-noi.

Siamo molto al di là dei discorsi filosofici sulla prova dell’esistenza di Dio o di quelli teologici sulla redenzione dei peccati. Con il cuore di Cristo ci troviamo a contemplare l’Amore incondizionato e infinito che plasma il credente e lo apre all’amore donato di Dio. La barriera di peccato e di morte, che separa la fragilità dell’uomo dall’amore trascendente, è tolta via dall’Incarnazione di Cristo che rivela ciò che dona, donando ciò che rivela: l’abbassamento dell’Incarnazione diventa l’innalzamento della divinizzazione. Siamo al vertice della comunione trinitaria che è il centro della vita cristiana, il cuore di una verità già in atto e tuttavia in attesa di compimento.

Chi cerca il vero Dio deve accogliere il Figlio e credere in Lui, perché solo Lui lo rivela in pienezza. Accogliere il Figlio comporta inscindibilmente essere afferrati dall’amore ineffabile del Padre. La comprensione di Dio è innestata nella figura di Gesù che è l’evento rivelatore e salvifico per eccellenza. Dio creatore, in Cristo, si rivela come Padre onnipotente e misericordioso che si china sui nostri bisogni e sulle nostre fragilità per soccorrerci e aiutarci. È l’amore per l’uomo che spinge la Trinità a questa suprema donazione. La Trinità, dunque, è il vertice della rivelazione di Dio e il cuore della fede. Nella misura in cui si accoglie o si rifiuta il dono dell’amore trinitario, si acquista o si perde la vita eterna, ci si salva o ci si danna. Se la fede in Dio non fosse trinitaria, saremmo adoratori di un Dio sbagliato. La fede non è esperienza irrazionale di un Dio disincarnato, ma apertura di cuore al possesso di Dio Padre che si dona nel Figlio “per opera dello Spirito Santo”. Cristo è il rivelatore di questa sublime verità.

Nella sua realtà storica e mistica, il mistero triunitario si rivela non attraverso i concetti di un freddo Dio dei filosofi, ma attraverso l’affascinante storia del suo agire tra noi, con noi e per noi. Lo Spirito è autore di questa conoscenza viva, interiore, attuale e progressiva della comunione tra eternità di Dio e storia dell’uomo. La Dei Verbum afferma: «Affinché l’intelligenza della rivelazione diventi sempre più profonda, lo Spirito Santo perfeziona continuamente la fede per mezzo dei suoi doni» (DV 5). Lo Spirito è il principio della contemporaneità di Cristo nella storia.

La Trinità è ineffabile Amore e la Chiesa dev’essere visibilità cosciente ed entusiasta dell’Amore incarnato attraverso la comunione nell’unità di carità dei credenti. Quando Gesù parla della vera vite e dei tralci, afferma: Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi (Gv 15,12). Nella preghiera prima della Passione, è questo il sommo desiderio che Cristo rivolge al Padre: Tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato… Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me (Gv 17,21.23). Tutti siamo chiamati a vivere lo stesso mistero di amore che esiste all’interno delle tre Persone divine; amore che è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato (Rm 5,5). Non è forse questa la vocazione e la missione della Chiesa? La Chiesa della Trinità non è vera e non sarà mai credibile se non è la Chiesa dell’unità nella carità. Unità che sgorga sia dal cuore della comunione trinitaria che germoglia in noi, sia dalla nostra comunione con la Trinità resa visibile attraverso il “sacramento” dell’Agape. La Chiesa, uscita dal cuore della Pentecoste, è tipico esempio: La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola (At 4,32). Questa concordia in cui vive la comunità ecclesiale rivela e realizza il desiderio di Gesù: Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore (Gv 10,16).

Il battesimo, ricevuto nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, ci immerge nella realtà di Dio Trinità che è Comunione d’Amore e indica altresì lo stile di vita del credente. Celebrare la Trinità non significa, dunque, far festa a una vaga “idea-dogma”, ma a quel “Mistero-Amore” che opera la nostra salvezza. L’Apostolo Paolo chiude la seconda lettera ai Corinzi con la formula liturgica di augurio benedicente: Salutatevi a vicenda con il bacio santo. Tutti i santi vi salutano. La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi” (2Cor 13,12-13). Inizia con il bacio liturgico scambievole e termina con la benedizione tripartita in cui le tre Persone divine sono il soggetto di tre doni fondamentali: la grazia, l’amore e la comunione. La grazia del Signore Gesù Cristo, elargita dal suo mistero pasquale; l’amore di Dio Padre, fonte suprema dell’agape che ci rende capaci di amore misericordioso e creativo; la comunione dello Spirito Santo, che ci rende strumenti credibili di concordia, di pace, di verità nell’unità.

Giuseppe Liberto